C’è stato un momento in cui i Wilco hanno raggiunto vertici impossibili per chiunque, probabilmente anche per loro stessi. È stato il periodo iniziato nel 2002 e terminato nel 2007 che comprendeva album meravigliosi quali “Yankee Hotel Foxtrot”, “A Ghost Is Born” e “Sky Blue Sky” che ce li mostravano diversi da tutto quanto girava in quel periodo forse persino sbagliati. Prima e dopo avevamo ascoltato dischi interessanti, belli, ma a cui mancava quella scintilla che possedevano in dosi massicce i tre citati sopra.
Il 2018 è stato come una lunghissima sessione di psicanalisi per Jeff Tweedy, che si è aperto al mondo con un’autobiografia (“Let’s Go (So We Can Get Back)”, bestseller del New York Times) ed una doppietta di lavori da solista (“WARM” e “WARMER“) ed ha ripreso confidenza con la con la scrittura di canzoni, ricordandosi e ricordandoci di essere una delle migliori penne degli ultimi venticinque anni.
Anche “Ode to joy” può, a ben diritto, essere inserito nel mondo musicale più intimo ed introspettivo, perlopiù acustico, dei dischi solisti del leader. Per i nostri essere acustici non significa meno potenti o meno schierati, quanto piuttosto porgere i suoni in un sussurro, non urlati, come si evince da “Quiet amplifier”, uno dei momenti più alti del lavoro. Tutto sembra partire da ritmiche circolari, sicuramente semplici all’ascolto, ma determinanti per la riuscita dell’opera. Tra riverberi (“Bright Leaves”), nostalgiche ballate (“Before Us”, “One And A Half Stars”) e provocatori flussi di coscienza (“Quiet Amplifier”), si parte decisamente alla grande. Poi si susseguono alcuni pezzi in modalità Jeff Tweedy (“White Wooden Cross”, “Citizens”, ma soprattutto “Everyone Hides”, singolo che Jeff ed il figlio Spencer scrissero nel 2014 per il film “St. Vincent”) e, allora, viene spontaneo chiedersi che fine abbiano fatto gli altri musicisti. La risposta ci viene consegnata da “We Were Lucky”, scritta appositamente per il mai domo Nels Cline, chitarrista che sa essere tanto dissonante quanto virtuoso.
Ci si accorge che sono i piccoli dettagli che fanno bello il disco e permettono di affrontare giornate in cui si assiste ad una continua deriva. L’album era atteso da molti, dopo le ultime prove interlocutorie. Bisogna prendere atto che, in tempi recenti, i Wilco non hanno mai cercato di essere quelli che siamo abituati a conoscere, e non soltanto per l’assenza definitiva di cavalcate malinconico-elettriche alla “Impossible Germany”, bordoni kraut-motorik alla “Spiders (kidsmoke)”, o folksong stellari alla “Via Chicago” e “Ashes Of American Flags”.
Tirando le somme a me l’album è piaciuto come non accadeva da tempo con loro, probabilmente da “Sky blue sky”, ma sono pronto ad accettare anche pareri discordanti!!!


Category
Tags

No responses yet

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *