Il quarto album in studio dei newyorkesi d’adozione Uniform è composto da otto brani e segna l’ingresso di un nuovo componente in formazione: il batterista Mike Sharp (ex-Trap Them) che va in pratica a sostituire il geniale Greg Fox. Il suono è giustamente rimodellato e continua a danzare tra componenti post-industrial e noise-rock, invocando lo spirito dei Nine inch Nails più virulenti, come quello dei tardi Neurosis e Unsane. Danze tribali informate dai romanzi di Chandler ed Ellroy in cui i personaggi sono ai margini della società, antieroi mai del tutto positivi.
I nostri si propongono come un gruppo noise nel cui suono scorgiamo elementi vari tra cui il dark/industrial, il metalcore e l’elettronica aggiornati ai tempi che stiamo vivendo. Grazie alla presenza del nuovo batterista rimodellano il suono virulento che li contraddistingue ad oggi dalle altre band ma allo stesso tempo apportando una ventata di aria fresca e dettagli più levigati che potrebbero far avvicinare nuove proseliti – come dimostra il primo estratto “Delco” – al noise punk industriale del gruppo.
Tra i momenti dell’album non è difficile scorgere situazioni che richiamano i Discharge (“The shadow of God’s hand”), panoramiche oscure e malate come nel caso del brano omonimo, muri di noise (“Life in remission”) che a volte perdono consistenza quasi ad espiare colpe inconfessabili (“I am the cancer). La voce è uno strumento capace di regalare dolore e sofferenza, un urlo avvolto dal suono delle chitarre (“This Won’t End Well”, “All We’ve Ever Wanted”).
Spesso mi hanno ricordato gruppi come Helmet e Unsane che, in passato, seppero ben descrivere una città morente come New York City, però in una versione riaggiornata al nostro quotidiano, ma in un mondo che non sembra reale.
La sensazione è che i nostri abbiamo leggermente abbandonato la ricerca del punto fino a cui spingersi per andare incontro all’approvazione del loro pubblico, che è una scelta comunque legittima!!!
No responses yet