THEO PARRISH: “Wuddaji” cover albumSei anni dopo “American Intelligence”, Theo Parrish è tornato – ovviamente sulla sua Sound Signature – con un nuovo album, intitolato “Wuddaji”, dove troviamo il producer detroitiano alle prese con l’arcinota formula house che va per la maggiore sulle sponde del Michigan e che dunque house fino in fondo non è, piuttosto un concetto di dance music poco ortodossa, che ragiona ad ampio spettro su più fronti, sempre con l’occhio sull’epopea Motown e gli slanci jazz; insomma materiale blackness fino al midollo, con in più una divertente escursione carioca per fare l’eclettico del caso (“Hennyweed Buckdance”). Se vogliamo, l’ideale capitolo successivo del “Taken Away” dell’amico e concittadino Moodymann.

L’ultimo disco di Parrish viene fornito con un inserto che spiega la copertina dell’album, informando l’acquirente che si tratta di una mappa di Idlewild. Si tratta di una comunità situata nel Michigan nord-occidentale che gioca un ruolo relativamente sconosciuto ma comunque importante nella storia nera. Fondata nei primi anni del 1900, è servita come resort e destinazione di vacanza per gli afroamericani, specialmente per la classe media della metropoli di Detroit e Chicago. Questo era un rifugio, un luogo in cui i neri potevano partecipare a una slitta del sogno americano mentre una segregazione più ampia teneva la maggior parte dei piaceri ben fuori portata. In una svolta ironica di eventi, la partecipazione e la popolazione caddero quando l’era dei diritti civili portò l’opportunità per una comunità un tempo dedicata di partecipare dove una volta erano vietati. Come affermano le parole sulla mappa dello stato di Idlewild, molte persone rimasero, continuando a mantenere viva la tradizione e la memoria.

In un certo senso si potrebbe dire che Idlewild e la musica house sono analoghi l’uno all’altra in alcuni aspetti. Entrambi sono stati creati in una situazione socioeconomica che ha permesso ai neri di dare origine ad uno spazio tutto loro, un luogo dove la gioia poteva essere espressa apertamente. A seguito dei cambiamenti culturali, l’attenzione si è spostata da queste istituzioni. Tuttavia c’è chi si dedica ancora a mantenere vivo lo spirito creando nuova storia. Per la progressione e la conservazione della musica house, non bisogna guardare oltre alcuni di quelli con radici dirette di quel periodo formativo a Chicago.

Pochi la fanno così come Theo Parrish. Noto per i suoi lunghi set, la diversità dei generi e l’atteggiamento senza fronzoli, è costantemente tenuto in grande considerazione come uno dei più grandi DJ del nostro tempo. Mentre molti aderiscono a un’estetica superficiale quando si tratta di house music, Theo rimane impegnato a condividere l’essenza del jack che è nata dalla cultura adolescenziale nera di Chicago. Funk, soul, jazz, discoteca, Afrobeat: tutto ciò che ha sostanza e funziona su una pista da ballo è un gioco leale per lui.

La traccia di apertura “Hambone Cappuccino” inizia con un pianoforte soul e un semplice groove. Un funky chugger lento per stuzzicare l’appetito. Il successivo è “Radar Detector”, un affare di jazz elettronico sciolto. Qui è in mostra una programmazione di batteria notevolmente non quantificata, un backbeat che si trova nella musica soul in stile midwest. Sul flip c’è la bellissima canzone “This Is For You” con la cantante di Detroit Maurissa Rose. “Hennyweed Buckdance” inizia una serie di grandi titoli mentre l’album si sposta in un territorio più adatto ai club. In parte chitarra blues con alcune vibrazioni shaker latine, a volte sembra inebriazione (nel miglior modo possibile). I livelli degli strumenti vanno su e giù nel mix, ricordando Theo ai comandi dell’isolamento su un EQ. “Who Knew Kung Fu” porta gli attributi jazz sulla pista da ballo ancora di più. C’è una linea di basso spessa che corre lungo alcune percussioni a mano, creando un’urgenza carica di scanalature. Il vincitore per il miglior titolo di traccia “All Your Boys Are Biters” è un pezzo beat con batteria pura e percussioni, e non una melodia in vista. Per chiuderlo, “Knew Better Do Better” è un bel calderone di molti elementi. Ci sono tracce di acid house, free jazz e pianoforte formale in pista. Un altro esempio di superba programmazione dei tamburi e mixaggio drammatico aiuta a concepire qualcosa che esprime l’emozione che manca oggi a molta musica elettronica.

In un’epoca in cui la vita notturna e l’accesso a una pista da ballo sono nel limbo, Wuddaji è un ottimo lavoro per credere di essere presenti in un club, di quelli giusti in cui la musica ha il ruolo preminente che le spetta!!!


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