Se vi capita di vedere una foto di Chris Dejardins, trovata su qualche vecchia rivista di inizio anni ottanta, rimarreste impietriti dalla paura. Chris, al tempo, sembrava un licantropo, un essere sicuramente frequentatore dei lati oscuri di Los Angeles. È sicuro anche che fu uno dei musicisti più importanti del punk californiano e pure figura imprescindibile per comprendere l’aspetto socio-culturale dell’underground a stelle e strisce dalla metà dei seventies fino ai giorni nostri.
Il nostro era un uomo dal multiforme talento, oltre che musicista anche poeta, scrittore, appassionato di cinema, attore e occasionalmente regista, firma sulla fanzine “Slash” e soprattutto, per noi appassionati di musica, scopritore di talenti e produttore di gruppi quali Gun Club, Dream Syndicate, Green on Red e Lazy Cowgirls. Fondò anche una propria etichetta a nome Ruby Records e fu lui stesso a capo di band come Divine Horsemen, Stone by Stone e, principalmente, Flesh Eaters.
Uscirà a breve il nuovo album dei Flesh Eaters dal titolo “I used to be pretty” e andrà ad impinguare una discografia che dal 1977, anno di nascita, ad oggi conta nove album.
Non si tratta di un lavoro approntato per fini economici ne nostalgici, ma di un disco coinvolgente e cattivo. Dejardins ha rimesso insieme la formazione più leggendaria tra le tante che si sono susseguite, quella con Dave Alvin, Bill Bateman e Steve Berlin, al tempo membri dei Blasters, John Doe e DJ Bonebrake degli X e, in alcuni episodi, Julie Christensen ex moglie di Chris e vocalist nei Divine Horsemen.
Il lavoro si snoda fra riletture del repertorio storico, tre cover e due brani scritti per l’occasione e posti all’inizio e alla fine del programma. “Black Temptation” possiede il classico sound del periodo dopo gli anni ottanta, e si snoda tra atmosfere e uso delle voci, mentre “Ghost cave lament” è un brano tenebroso che si muove per tredici minuti e, come suggerisce lo stesso leader, è da porre sul solco di pezzi storici quali “The end” e “When the music’s over” dei Doors, ma possiede al suo interno sonorità flamenco ed un humus alquanto malsano.
I recuperi dal passato si snodano dal 1977 per arrivare al 2004, ma non comprendono nessun brano proveniente dall’iconico “A minute to prey…”. Non aggiungono ne tolgono alcunchè alla loro grandezza, ma mettono in mostra un gruppo ancora in grado di ruggire e dare la paga a molte giovani formazioni.
Belle e accattivanti le cover scelte. Si inizia con “The green Manalishi”dei Fleetwood Mac di Peter Green, per poi ascoltare “Cinderella” dei Sonics e “She’s like heroin to me” dei Gun Club che ci vomitano addosso una carica di elettricità capace di ringiovanirci e portarci in quel tempo magico in cui tutto quello che usciva sembrava oro.


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