Non avrebbero potuto scegliere un nome più anonimo, quasi a voler distogliere l’attenzione su di loro, affinché ci si potesse concentrare solo ed unicamente sui contenuti della loro magnifica ed irripetibile musica.
Tutto si può dire di questo grande gruppo, ma la cosa più importante è che furono, tra il 1968 ed il 1975, una delle migliori formazioni a declinare un suono profondamento americano con pochi rivali al tempo se non gli strepitosi Little Feat e i poco conosciuti Amazing Rhythm Aces. Tutto risulta ancora più strano ed incredibile se pensiamo che ad eseguirlo furono quattro canadesi ed un solo statunitense, ma in grado di pennellare in modo superbo brani intrisi di americana, soprattutto del sud, come pochi riuscirono, sia contemporanei che delle generazioni passate e future. Come fecero a rileggere con tanta intensità la storia americana rimane un mistero.
Il gruppo era composto da Robbie Robertson (chitarra), Garth Hudson il più erudito di tutti dal lato musicale (tastiere, fiati, fisarmonica), Rick Danko (basso e voce), Richard Manuel (piano, batteria e voce) e l’americano Levon Helm (batteria, mandolino e voce).
Inizialmente si chiamarono The Hawks e fecero da backing band a Ronnie Hawkins. Successivamente registrarono alcuni singoli come Levon Helm and The Hawks e accompagnarono il bluesman John Hammond JR. in tre dischi pubblicati dalla Vanguard.
La svolta avvenne nel momento in cui furono contattati da Bob Dylan che, grazie a loro, scrisse in quel periodo, dal 1965 al 1967, alcune delle più belle pagine di folk-rock elettrico con venature di soul bianco. Un rapporto intermittente durato circa una decina d’anni e poi ciascuno per la propria strada, dopo aver fatto la storia della musica americana.
Le caratteristiche sonore di The Band sono quelle di possedere una individualità ben precisa e di usare volumi contenuti con la riduzione al minimo di effetti speciali. Lo stile anomalo era un sapiente dosaggio di ingredienti che giungevano alle nostre orecchie trasfigurati, ma che contenevano tutti i vari affluenti del grande fiume americano, dal gospel al blues, dal rag al canto protestante, dal rock’n’roll al country, dalla ballata anglo-scozzese al canzoniere francofono.
Tutto a comparire nei loro primi due album, i capolavori “Music from big pink” e l’omonimo “The Band”.
Non è di questi due capisaldi che vi voglio parlare, ma di “Northern lights-southern cross”, il primo disco di composizioni originali dal 1971. Un lavoro che viene visto sia come un graditissimo ritorno, ma pure come il canto del cigno dei nostri visto che sarà l’ultima volta che suoneranno insieme in studio.
Si tratta dell’album migliore dai tempi del secondo e la cosa suona leggermente ironica. Ricordo che al tempo lessi che fu accolto tiepidamente e di questo non riesco a capacitarmi!!!
Il gruppo si era trasferito da Woodstock N.Y. a Malibu in California. Poterono, per la prima volta, utilizzare uno studio di registrazione a 24 piste e questo fu indubbiamente positivo soprattutto per Garth Hudson che si sbizzarrì con Moog, altri nuovi strumenti ed ottoni ed ance, ma tutti apportarono qualcosa di nuovo per dipingere una nuova tela, esplorarono nuovi timbri e aprirono il loro suono in alcune direzioni inaspettate.
Tra i brani presenti (Otto in tutto) mi preme citare “Forbidden fruit” un pezzo semiautobiografico che assume le vesti di una ballata rock.
“Hobo jungle” viene impreziosita dai tocchi alla sei corde di Robertson, un grandissimo chitarrista, mentre in “Ophelia” assistiamo ad uno stile twangin’ dietro agli arrangiamenti flatistici di Hudson complessi, ma di gran gusto che catturano l’atmosfera vecchia New Orleans.
“It makes no difference” è probabilmente la migliore e più emozionante ballata che il gruppo abbia mai scritto.
“Acadian driftwood”, per me capolavoro assoluto, è composizione di finezza incredibile, uscita dalla penna di Robertson, e la collocherei alla pari con “The night they drove old dixie down”.
Le voci sono al meglio delle proprie possibilità sia in solismo che negli intrecci, Helm, Manuel e Danko sono in gran forma nonostante i problemi che minano i rapporti interni.
Raggiunse solamente la ventiseiesima posizione in classica a dimostrazione di quanto bravi fossero nel marketing quelli della Capitol e l’inettitudine delle stazioni radio.
Fate in modo di dimostrarvi migliori sia dell’etichetta che delle radio, prestate la doverosa attenzione a questo gran disco.


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