Quando arrivò nei negozi l’esordio degli Spain, “The blue moods of Spain”, nel 1995 il gruppo esisteva già da un paio di anni. Si era formato in California per mano di Josh Haden, figlio del jazzista Charlie Haden e fratello di Petra, Rachel e Tanya.
Le reazioni furono contrastanti, da parte della critica si gridava al capolavoro, mentre gli ascoltatori suggerivano trattarsi di un disco narcolettico. Per me fu un’uscita molto interessante, da collocare in quell’ambito di suoni fatto da atmosfere rarefatte e dai ritmi rallentati dei Cowboy Junkies, dei Velvet Underground di “The Velvet Underground”, come dello slowcore di gruppi come Galaxie 500 e Codeine con forti contaminazioni cool-jazz e blues. Oggi è considerato da molti un importante tassello nell’evoluzione della musica alternative rock.
La formazione proseguì l’attività per un lustro circa fino al 2001 con la pubblicazione del terzo disco dal titolo “I Believe”, per poi interrompere l’attività musicale. La loro seconda vita iniziò nel 2012, che vide la realizzazione del quarto album “The Soul of Spain”, uscire per la Glitterhouse Records e venire supportato da un lungo tour europeo che vide l’aggiunta di Danny McKenzie alla chitarra acustica. Nell’album, che conta della presenza dell’organo Hammond, le atmosfere ricordano quelle del primo lavoro. Da quel momento divennero molto più prolifici che in passato, inanellando uscite discografiche e lunghi tour di supporto.
È di un paio di mesi fa l’arrivo sugli scaffali di “Mandala brush” che significa una rappresentazione ipotetica del cosmo realizzata con intrecci di fili su telaio, oppure dipinta su stoffa e ancora affrescata sulle pareti di un tempio. Si tratta di un’opera che si discosta notevolmente da quanto prodotto in precedenza, un disco più sperimentale ed arricchito di trame psichedeliche. Anche la formazione si presenta più nutrita, oltre alla ristretta cerchia di musicisti, già presente in “Carolina”, sono presenti una fitta sessione di fiati più il nucleo familiare che offre il proprio contributo.
L’album è registrato live in studio nella “Città degli Angeli” ed inizia con un brano che fa subito gridare al miracolo. “Maya in the summer”, singolo scelto per il lancio, ha una matrice iberica, ma un insolito nervosismo sonoro ed una voce che si dispiega chiassosamente con una conclusione tra delizie morriconiane. Il nostro firma con “Sugarkane” e “Laurel, Clementine” due quadretti blues di classica scuola Spain.
L’album ha diversi momenti non convenzionali quali “Tangerine” che si dipana lungo un dialogo tra violino e sax tratteggiando una melodia folk psichedelica oppure i profumi orientali di “God is love” che sembrano trarre ispirazione dai primi Popol Vuh.
È sempre stato accusato di proporci continuamente la stessa minestra, questa volta Josh è riuscito a zittire i più incalliti detrattori miscelando radici americane, spiritualità, suggestioni slowcore e psichedelia.
Un disco che ritengo tra i migliori del 2018!!!
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