Sarathy Korwar ha un tocco leggero dietro la batteria. Dal debutto con “Day to Day” del 2016, dove ha mescolato la musica popolare della comunità Siddi del Gujarat rurale con ritmi dell’Africa occidentale e melodie classiche indiane, il modo di suonare di Korwar è stato abbastanza morbido e sottile da comprendere la complessità di ritmi disparati, pur possedendo ancora una solidità metronomica radicata.
Sarathy si fa sentire non attraverso la potenza e il volume, ma nella fermezza, come guida la sua mano.
Nel suo quarto album come bandleader, il nostro raggiunge l’apice di questa tecnica di batteria aperta. Realizzato in collaborazione con il produttore elettronico Photay, “Kalak” è un affascinante corpus di opere, che avvolge l’ascoltatore in melodie ondulate di synth, fanfare di corno stratificate e caratteristiche vocali, il tutto guidato dalle onnipresenti percussioni di Korwar.
Aprendo con “To Remember”, una traccia che mette in evidenza l’intreccio del flauto di Tamar Osborn e le linee minimali della tabla di Sarathy, “Kalak” si approfondisce e si scurisce man mano che procede.
“Utopia Is a Colonial Project” risuona su un ritmo sincopato scrosciante e sul denso ronzio dei sintetizzatori suonati dal tastierista Danalogue, mentre la linea di basso dubby di “Remember Begum Rokheya” è ancorata ad un complesso poliritmico di battiti di mani, flauto e voci cantate. In tutto, il sound design carico di riverbero di Photay fornisce una trama unica e sinistra.
“That Clocks Don’t Tell But Make Time” è il fulcro tematico del disco, che collega i ritmi di batteria l’uno all’altro come se riproducesse linee di dialogo sovrapposte. È una performance virtuosistica, che dà origine ad un ritmo ipnotico e senza fine.
Come il palindromo del titolo del disco, i ritmi di “Korwar” si muovono a spirale verso l’esterno e si ripiegano su sé stessi, creando una storia ipnotizzante!!!
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