Me li ricordo bene quando vennero a suonare al Rootsway Festival nel 2006 poco più che ventenni, ma dotati di una carica adrenalinica altamente contagiosa. Josh alle chitarre, la moglie Breezy al washboard ed il fratello di Josh, Jayme alla batteria furono capaci di incendiare la platea della bassa parmense, uno dei concerti più coinvolgenti tra tutti quelli proposti dall’associazione Roots’n’Blues. Posseggo ancora la locandina con le loro firme con dedica.
Escono ora con un nuovo disco, che se non erro dovrebbe essere il decimo di una carriera iniziata al sorgere del nuovo secolo. È inciso per la loro etichetta, ma ha un contratto di distribuzione con la Thirty Tigers, tra le labels più importanti nel propugnare il suono delle radici americane, sia esso blues, country oppure folk.
Rispetto a quando li vidi la formazione ha cambiato spesso il batterista, ma ora sembra essere arrivata ad una scelta definitiva con Maxwell Senteney. In riferimento al lontano 2006 hanno anche una visibilità maggiore a livello nazionale forse perché hanno ampliato lo spettro sonoro incorporando elementi di country, hillbilly, americana e gospel.
The Reverend Peyton’s Big Damn Band riescono a suonare fino a 300 spettacoli all’anno e sono pubblicizzati come la più grande piccola band del paese. La nuova fatica si apre con il sermone “You can’t steal my shine” un brano dai connotati gospel-country-blues in cui danno un’ulteriore conferma della loro bravura tra slide in fingerpickin’, percussioni coinvolgenti e perfette armonie vocali.
Il blues non è sparito, basta ascoltare “Dirty swerve” un boogie alla ZZ Top, ma collocato temporalmente molto più indietro, con il vocione di Josh a cui si contrappone quella molto meno tonitruante di Breezy che però possiede una carica non comune.
“So good” presenta una amplificazione più potente ed il paragone con George Thorogood è immediato. “Church clothes” rappresenta un’oasi acustica con atmosfera tranquilla e ricca di feeling con la slide che vorrebbe ricreare quei momenti in cui erano in auge Charley Patton e Robert Johnson.
Erano anni che non li ascoltavo più, ma sono ancora in grado di farmi vibrare e non hanno perso un grammo della loro comunicatività epidemica.


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