All’inizio dello scorso ottobre sono stato tempestato di telefonate da persone che volevano sapere se avessi già ricevuto il nuovo album di Nick Cave dal titolo “Ghosteen”. A tutti risposi che il 4 ottobre sarebbe stato disponibile online, mentre per la copia fisica si sarebbe dovuto aspettare l’otto di novembre. Da un lato fui soddisfatto di tutti quei contatti telefonici, significavano che esistono ancora persone che aspirano a portarsi a casa l’oggetto del desiderio, dall’altro mi disturbava questa pubblicità sull’uscita che era solo liquida. Lasciamo da parte queste considerazioni e cerchiamo di addentrarci nell’opera dell’oscuro Nick. Le recensioni lette fino ad oggi ne parlano in termini entusiastici, The Guardian, Pitchfork, L’internazionale lo definiscono un capolavoro, disco denso, devastante nei contenuti, splendidamente spartano negli arrangiamenti, in una parola una raccolta imperdibile.
Come saprete la vita di Cave fu sconvolta, nel 2015, dalla scomparsa del figlio Arthur e codesto avvenimento ha modificato per sempre gli atteggiamenti del nostro. L’australiano, da persona assolutamente insopportabile, poco propensa a concedersi ai fans, ha iniziato a condividere i propri sentimenti, ha spalancato a tutti la propria arte facendo partecipi gli ascoltatori della propria musica e delle liriche. Ha persino aperto un canale diretto con il pubblico (i Red Hand Files) in cui risponde a qualsiasi domanda gli venga posta, dalle più banali a quelle maggiormente interessanti. È grazie ad un tale Joe da Berxhill-on-Sea, Inghilterra che siamo venuti a conoscenza dell’uscita di “Ghosteen”, così come dei resoconti di tanti ascoltatori, che, passata l’euforia per la novità, hanno cominciato a chiedersi che fine avessero fatto i Bad Seeds, perché in realtà si tratta di un disco che sancisce ancora una volta l’assoluta importanza di Warren Ellis nell’economia del suono di Nick Cave. Il lavoro pare una lunga meditazione per voce, synth, qualche tocco di piano, bassi ogni tanto, chitarra no, batteria non si capisce.
Il processo compositivo iniziato con “Push The Sky Away” e portato avanti drasticamente col successore qui trova massimo compimento. Cave è da un po’ che guarda fisso i titanici lavori dell’ultimo Scott Walker e scardina ancora una volta la forma-canzone. Chitarre, batteria e refrain assenti (al massimo qualche frase ripetuta a mo’ di mantra), tappeti sonori sintetici e/o orchestrali per mini-colonne sonore spesso tendenti all’ambient-drone intessute da Ellis dove Cave si staglia con immagini e storie potenti e indelebili. In più, quella voce capace ancora di spezzarti l’anima in due. Sì, perché “Ghosteen” è un altro concept sulla perdita, il dolore e sull’unico modo per combatterli: l’Amore. La missione del nostro ormai è quella di rivelare i sentimenti: dal legame tra uomo e donna di “Into My Arms” fino ad elevarsi al rapporto tra padre e figlio in “I Need You”.
Quale sarà il destino di questa raccolta in futuro? Manterrà quest’aura guadagnata prima e dopo la sua uscita oppure verrà dimenticato come tanti album di questi anni?
Non so rispondere in questo momento, quello che è certo è che Cave sta proseguendo il percorso che punta direttamente verso la luce dopo anni di buio e sofferenza indicibili!!!


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