The Visitor è un album che ascolteranno in pochi e che ancora in meno compreranno.
Ed è un peccato, anche se sono conscio che il tempo per ascoltare a fondo i dischi viene sempre più a mancare in questo mondo frenetico, e che Young rilascia i suoi lavori ad un ritmo impressionante per chiunque, tranne che per il suo amico Willie Nelson, il quale non si fa (e non ci fa) mancare almeno un paio di uscite all’anno.
Rimane la speranza che venga rivalutato nel tempo, come avvenuto nel corso della sua lunghissima carriera per la trilogia ‘Time Fades Away’ / ‘On The Beach’ / ‘Tonight’s The Night’, oppure, seppur in modo minore, per ‘Trans’, o ancora, in tempi più recenti, per ‘Le Noise’, passato inosservato o quasi (tranne nei paesi nordici e nel natìo Canada, dove natìo si intende sia per Young che per il produttore Daniel Lanois) nel 2010 per poi assurgere a livello quasi di capolavoro ai giorni nostri.
Secondo album consecutivo, dopo ‘Peace Trail’, ad essere inciso negli studi Shangri-La, di proprietà di Rick Rubin, ‘The Visitor’ è il terzo a nome Neil Young + Promise Of The Real (‘The Monsanto Years’ e il semi-live ‘Earth’ sono i precedenti).
Risulta evidente che i ragazzi (i figli di Willie Nelson Lukas e Micah, con la sezione ritmica composta da Corey McCormick, Anthony LoGerfo e Tato Melgar) in studio sono migliorati, ma non raggiungono la qualità di un Jim Keltner o di un Paul Bushnell, per rimanere a ‘Peace Trail’, o di uno Spooner Oldham, di un Nils Lofgren e chi più ne ha più ne metta, tutta gente che con Young ha lavorato e ha dato sicuramente risultati migliori; comunque risulta altresì evidente che ci mettono anima e cuore e ‘The Visitor’ è un bel disco, un grande disco, coinvolgente e stordente per ritmi, suoni, voci, colori e sapori. Vocalmente tutto l’album è a livelli altissimi.
Neil Young, ben lungi dall’essere “l’anziano davanti al cantiere” che sembra in copertina, anche se lì è raffigurata un’automobile, sviscera i temi dell’Amore, della Natura, della politica (volutamente minuscolo, come minuscoli sono i suoi interpreti) con forza, convinzione e rabbia, senza dimenticare la dolcezza, seppur a volte rude, di cui è capace.
Ma davvero quest’uomo ha sempre meno gente che lo apprezza perché canta di queste cose?
Mi piace, quest’uomo!
Davvero la gente non compra i suoi dischi perché nelle sue canzoni si scaglia contro i potenti, facendo spesso nomi e cognomi?
Adoro quest’uomo!!!
‘Already Great’ ne è il perfetto esempio: un pezzo rock che poi rallenta nel ritornello, riprende vigore quando entra il coro degli American Citizens, prima di lasciare spazio ad un assolo che prende per mano la canzone e la accompagna alla fine mentre tutti cantano “Quali strade? Le nostre strade!”.
E’ vero, “siamo già grandi”, non c’è bisogno di persone che solo per il proprio interesse e il proprio ego ci dicano cosa dobbiamo fare, e soprattutto non vogliamo “né muri, né odio, né fascismo”. Bello il lavoro del pianoforte di Micah.
‘Fly By Night Deal’ musicalmente, come arrangiamenti, riporta con la mente a certe cose di ‘American Dream’ (sfortunato album del 1989 a nome CSNY): effetto Niko Bolas?
Può essere, però per fortuna qui il suono è caldo e il parlato quasi rap di Young ci mostra ancora una volta l’apprezzamento del canadese verso questo genere musicale, mentre la canzone si risolve in una distorta armonica.
‘Almost Always’, inutile negarlo, sembra una out-take di ‘Harvest Moon’; se vogliamo essere cattivi possiamo dire che è un (auto) plagio. Ma va presa per quel che è: una bellissima ballata. Ci sono fans che vorrebbero solo dischi con canzoni così, inutile negare anche questo.
‘Stand Tall’ richiama in parte le atmosfere di ‘Fly By Night Deal’, ma qui entrano in gioco prepotentemente LoGerfo e Melgar e il rock si fa più selvaggio. Se parole come “stand tall for Earth, long may our planet live, together we can win” possono sembrare veramente troppo semplici o semplicistiche, ricordatevi che se vivete per poi raggiungere il paradiso da morti… beh, guardatevi intorno, il paradiso potremmo averlo già qui, adesso, se solo lo volessimo.
‘Change Of Heart’ inizia fischiettando, una ballata con un ritmo vagamente caraibico che, se cantata da un Paolo Nutini (tanto per fare un nome), sarebbe un successo a livello mondiale; sì, una canzoncina, che però non ti levi più dalla testa, in più cantata con tono caldo e quasi confidenziale da un Neil in splendida forma.
‘Carnival’ è la canzone che non ti aspetti. Ritmi provenienti da Sud del border messicano, gritos, una ragazza “con lo zucchero negli occhi”, anche qui un rallentamento nel ritornello, per poi tornare veloci a “volare attraverso l’aria…nel più grande show sulla Terra”. Capolavoro.
‘Diggin’ A Hole’ è un bluesaccio sporco, una sorta di canto da chain-gang con accompagnamento elettrico. L’ennesimo cambio di direzione di un lavoro variegato.
‘Children Of Destiny’ la conoscevamo già perché uscita come video (con 1.000.000 di visualizzazioni in poco tempo) all’inizio dell’estate. Una specie di inno (“stand up for what you believe, resist the powers that be”) con coro ed orchestra, accolto in modo controverso da critica e pubblico. Effettivamente si posiziona bene all’interno del disco, mentre presa da sola faceva storcere il naso.
‘When Bad Got Good’, breve, si fa comunque apprezzare. È un altro blues, più in stile ‘Tonight’s The Night’, anche se la cartella stampa della Reprise lo presentava come modern funk-rock.
‘Forever’ è l’altro capolavoro di ‘The Visitor’. Lunghissima ballata, folkeggiante, cantata con la voce sempre sul punto di spezzarsi. Quando entrano i sussurri dei Promise Of The Real ti viene da pensare che sì, “la Terra è come una chiesa senza il predicatore”, ma a volte può bastare una canzone e il paradiso ti sembra più vicino.
Inutile paragonare ‘The Visitor’ ai grandi dischi di Young del passato.
Nessun disco di nessun artista di oggi può rivaleggiare con ‘After The Gold Rush’, ‘Zuma’ o ‘Rust Never Sleeps’. Ma questi dischi Neil Young li ha già fatti, erano gli anni ’70.
Come si fa ad amare un artista per chiedergli di rifare sempre le stesse cose?
E’ l’unico della sua generazione ad affrontare certi temi, rischiando tutto in termini di popolarità. Eppure Il Visitatore va avanti, con una buona dosa di testardaggine, con coraggio e coerenza, “really want to make a difference”.

Luca “borderwolf” Vitali

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