MILLER ANDERSON – ‘Bright City’ cover albumDivertente vecchio anno 1971; basta chiedere a David Hepworth (giornalista musicale britannico), anche se sono incerto se questo album sia mai stato nella sua rosa dei candidati, quello intorno a dimostrare la sua tesi su quell’anno essere sopra tutti gli altri. Non lasciarti scoraggiare, però, poiché questo in realtà incarna le strade, certamente, a volte schizofreniche che la musica rock stava prendendo allora, abbracciando influenze in abbondanza e assorbendo idee ben oltre un boogie standard 4/4. Il che spiega forse anche perché questa non è stata proprio la svolta prevista, con la sensazione che il management potrebbe prendere una direzione diversa da quella del musicista stesso. Ma ci arriveremo.

Nel 1971 Anderson si era guadagnato un nome decente, come cantante e chitarrista nella Keef Hartley Band, una formazione blues ricca di ottoni, senza paura di immergersi in acque più jazz. Abbiamo dato una svolta recente alla loro produzione, come un’altra parte della grande ambizione di Cherry Red di rivisitare ogni pagina, anche le ultime, del rock, guardando Anderson iniziare proprio come cantante, alla seconda chitarra, prima di assumere anche i compiti principali di quello strumento. Francamente, dopo 5 LP, sembrava giusto che toccasse a lui prendere i riflettori. Vediamo come ha fatto.

L’apertura, “Alice Mercy (To Whom It May Concern)”, sembra iniziare con il piede sbagliato, almeno per gli accoliti della sua band precedente, Miller che si sforza in un registro più alto rispetto alla sua gamma abituale. Non fraintendetemi, è una ballata rock abbastanza robusta, risplendente di clavicembalo e Hammond come trame prominenti, la formazione dietro di lui suona in modo impeccabile, ma sembra di prendere troppo spunto da alcuni dei concorrenti del giorno, Terry Reid o Ian Gillan forse, da qualche parte dall’estremità più urlante dello spettro. O quel bel giovane, Robert Plant. Quella sorpresa si deposita su ulteriori ascolti, ma, con il passare degli anni, sembra tutto un tantino forzato. Soprattutto mentre il resto del disco si svolge. Cosa che fa anche questa prima traccia, proseguendo nella parte tra parentesi della canzone, passando in modalità acustica con il flauto. Un delizioso cambio di marcia, con Lyn Dobson, un alunno di Hartley, che fornisce il flauto. Alle mie orecchie, molto simile al lato più tranquillo dei primi King Crimson, e non sono sicuro del motivo per cui non è stato dotato di una traccia tutta sua.

Ritornando e rimanendo sul tema dell’impeccabile esecuzione, il che non sorprende, dato che la maggior parte erano ex colleghi dalla porta girevole della band di Keef Hartley, quindi artisti del calibro di Mick Weaver, Peter Dines, sono qui, entrambi alle tastiere, così come il buon vecchio Gary Thain, il cui basso è, come sempre, esemplare. La batteria è di Eric Dillon (Fat Mattress). Tutta la scrittura dei brani è stata gentilmente concessa da Anderson, proprio come aveva fornito la maggior parte del materiale di Hartley.

La seconda canzone, “Age Of Progress”, si adatta molto meglio al timbro vocale di Miller, ed è un numero fluttuante e folk. Con la voce a meno di un milione di miglia dal croon di Glen Campbell, il pezzo è abbastanza forte da essere stato scritto da Jimmy Webb. Diventa lentamente tutto un po’ mosso man mano che procede, introducendo e aggiungendo il miglior talento vocale di Madeleine Webb, Liza Strike e Tracy Miller. Questo spiazza completamente l’ascoltatore per l’allora title track quasi in stile Tim Buckley, intrisa di archi, che, in un buon equilibrio, sono davvero piuttosto buoni. L’arrangiamento è stato fornito da, ricordatelo, Junior Campbell. Questa composizione è un coltivatore e la sua voce la rende un punto culminante. Era l’unico singolo estratto dal rilascio e non credo abbia turbato molto le classifiche, il che mi sembra un peccato. Tornando al lato più roccioso della strada, “High Tide, High Water” è uno ‘stonker’. La chitarra ritmica di Neil Hubbard è alla base di una spavalderia a ritmo medio e, se sono stordito dai cambi di direzione, lo adoro. Miller aggiunge un’altra chitarra solista economicamente efficace. A rischio di giocare al gioco di scegliere le influenze, eccolo libero. Ho detto che la chitarra è fantastica? Anche un bel po’ di interazione organo/pianoforte. Che, per rimanere con la strada, i lati, la parte centrale e l’incrocio, i riferimenti, conduce alla conclusiva, “Shadows Cross My Wall”, dove le congas e il flauto ricordano Traffic dell’era ‘Barleycorn’.

Questo è tutto, quindi, il lavoro originale. Non abbiamo la versione live di “High Tide, High Water” che è saltata fuori in una riedizione del 2010, una versione corposa e più sciolta, ma abbiamo il capovolgimento del singolo, “Another Time, Another Place” e una sfilza di live e offerte radiofoniche. “Another Time, Another Place” è una delicata ballata acustica, con qualche orchestrazione, con il flauto di Dobson cosparso liberamente dappertutto. È buono come il lato A e non dissimile nella sua risonanza ‘Buckley-esque’, anche un tocco di Donovan. Se avesse sostituito “Grey Broken Morning” nel disco, forse sarebbe andata meglio?

Avrebbe meritato ben altra carriera, aveva tutto forse non abbastanza identità individuale!!!


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