Nonostante il successo ottenuto con l’album precedente Michael non ha cavalcato l’onda e fatto uscire un disco immediatamente, ma ha lasciato che trascorresse un po’ di tempo, per l’esattezza ben tre anni. Ha cercato di preparare il terreno interrogandosi sulle proprie convinzioni di artista e la risposta che si è dato è quella di non porsi alcuna barriera artistica e stilistica.
Appare come un re in copertina, utilizza il proprio cognome come titolo dopo che avevano cercato di cambiarglielo per uno più semplice da ricordare, sembrano prese di posizione ben precise per affermare la discesa in campo di una personalità di colore, introducendo un disco certamente segnante per l’universo black, specie dalle parti delle sue costellazioni più raffinate e rispettose del passato, certamente affollate, ma anche piuttosto caotiche e disorganizzate, bisognose di nuovi fari, di personalità guida.
Sembrano lasciate da parte definitivamente le chitarre di reminiscenza floydiana in favore di un soul ricco di sfumature e calore come accadeva nella stagione d’oro di questa musica cioè i sessanta e l’inizio della decade successiva.
L’identità razziale abita da tempo nella sua poetica, lui figlio di immigrati e cresciuto in uno dei quartieri più bianchi di Londra, Muswell Hill. Così come mai in passato riesce a scrollarsi di dosso tutti i propri timori nel dare modernità e contemporaneità ai suoni digitali facendo convivere pacificamente Gil Scott-Heron, Bill Withers con DJ Shadow.
I coretti di “Living In Denial” e “You Ain’t The Problem” ritmano due brani fantastici, col potere di catapultarti nel calore del ghetto, qualunque esso sia. Il secondo sembra poter ricordare quelle colonne sonore di film Blaxploitation grazie ad un groove afro e ad una chitarra sensuale e ad un ritornello che suona come una calorosa incitazione a non colpevolizzarsi.
“Rolling” trasuda negritudine da tutti i pori con il suo basso corposo e il cantato sostenuto e scivola con grazia nel pezzo successivo, “The Kind Of Love”, ballata avvolgente di chiara matrice soul che viene abbellita con tocchi minimali di archi e pianoforte, che conferiscono una certa drammaticità.
Diviso in due sezioni, “Hero” è un altro pezzo da novanta. Dopo l’introduzione rarefatta e dolente, è la volta di un riff incalzante di chitarra e di un basso che segue a rimorchio per una evoluzione che profuma di Hendrix.
La stampa d’oltremanica lo ha definito disco del decennio, esagerando sicuramente, però si può parlare di un lavoro dalla personalità e consapevolezza mostruose che lo inseriscono tra gli “instant classic”. Ha iniziato un percorso che prelude a un futuro brillante e ricco di prospettive!!!


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