Ricordate tutti i Marillion? Gruppo cardine nel piccolo rinascimento del progressive della metà degli anni ‘80, dopo la buia notte tra gli anni ‘70 e ‘80, ha avuto una inaspettata popolarità anche in Italia in quegli anni. Ricordo ai tempi di “Misplaced childhood”, il loro terzo disco, concerti sold out. Poi liti, l’abbandono del corpulento cantante Fish, un progressivo calo di popolarità, l’arrivo del nuovo cantante Steve Hogarth, alcuni dischi stanchi, altri molto buoni ma ormai il treno del successo era passato, un vistoso calo di carisma anche nella setta segreta degli appassionati del genere, tentativi a volte maldestri di modernizzare il sound. I Marillion ormai hanno più di vent’anni di carriera. Dinosauri? L’ultimo “Anoracnophobia” è stato un buon tentativo di riprendere con più convinzione una immediatezza di prassi musicale con brani d’impatto eppure ancora stratificati. Un buon disco che però è piaciuto a pochi. Un gruppo in crisi che ha giocato la sua carta, la prenotazione del nuovo disco da parte dei fans prima ancora che una sola nota fosse composta e suonata. Una chiamata alle armi. Il risultato è questo “Marbles” ed è stato un successo (relativo) oltre le previsioni, preorder andato benissimo e anche vendite successive ottime. Disco in due versioni, una singola nei negozi e una doppia acquistabile, in teoria, solo sul loro sito. Mossa speculativa evidente, qualcosa mi dice che prima o poi uscirà anche la versione doppia, invogliando ad un doppio acquisto. Ma pazienza, veniamo a “Marbles”.
Sgombriamo subito il campo da alcuni equivoci. Se vi capita di imbattervi in dichiarazioni programmatiche del gruppo, specie del cantante, sarà tutto un “siamo un gruppo in costante evoluzione”, “non siamo un gruppo legato al passato del progressive, per noi regressive” e via sproloquiando, pinocchietti, per non spaventare il ragazzino che deve decidere cosa comprare dopo i Placebo o i Wilco. La realtà è che i Marillion fanno quello che hanno sempre fatto, spesso bene e in “Marbles” benissimo, ossia del progressive rock.
La partenza sono i 13 minuti (niente prog, eh?) di “Invisible man”, un brano poco composto ma molto arrangiato, con impeccabili stacchi chitarristici ma volutamente tenuti sottotono, rifiniture di tastiere e piano, base ritmica mutevole e su tutto la prestazione vocale di Hogarth, vero epicentro del brano, che crea un climax via via drammaturgico e melanconico, umorale, forse lievemente rovinato da un finale urlato a cui Hogarth rinuncia raramente. Poi la prima parte della title track, breve brano ripreso 4 volte durante il disco. Le biglie colorate (marbles, appunto) come simbolo dell’infanzia (psicologica) perduta. Ma si, via, contrariamente alle mie abitudini vi riporto parte del testo, a mio parere molto bello: ” qualcuno ha visto la mia ultima biglia? è rotolata sul pavimento ed è caduta in un buco in un angolo di una stanza di una città durante un tour……….come mi sdraio nel mio letto c’è adesso uno spazio vuoto nella mia testa dove una volta c’erano colori e suoni”.
Cambio netto di clima con “You’re Gone”, primo singolo (in classifica in UK), ritmica sintetica, quasi ballabile, accenni funky alla chitarra……..eppure il brano funziona, è molto orecchiabile ma non manca di una certa, paradossale, profondità, e di una elegante sovrapposizione delle voci strumentali. La successiva “Angelina” è, a mio giudizio, uno dei brani migliori, inizio voce e pochi, pigri accordi di chitarra fanno da preludio ad una melodia lieve ed aerea che permea tutto il brano, di grande dolcezza e atmosfera.
Scendiamo sulla terra con il secondo singolo, ” Don’t Hurt Yourself”, brano molto FM senza infamia né lode, molto più rock da stadio, battiamo il tempo ma non ci scaldiamo più di tanto; molto meglio la successiva “Fantastic Places”, niente di ché in realtà, ma un buon lento (termine vetusto, eh?) da luci stroboscopiche, un po’ alla Phil Collins con finalone con chitarrone stappacore. Estetica un po’ coatta, mi rendo conto, ma non sempre si può andare dallo psichiatra come training per ascoltare un disco.
Vabbé, riprendiamo quota con “Drilling Holes”, uno dei brani migliori e decisamente il brano più fuori schema. Il focus del brano è sfuggevole, ampi echi dei Beatles psichedelici con tanto di cameo al clavicembalo, stacchi di mellotron, voci filtrate. Un piccolo gioellino che ci prepara al capolavoro del disco, ossia i 12 minuti di “Neverland”. Una bellissima prima parte, suonata e cantata magistralmente, molto lirica, epica, toccante che si apre ad un lungo finale con Hogarth che canta frasi spezzate doppiate con effetto echo, la chitarra gli ruggisce dietro e le tastiere, settate su sonorità floydiane alla “Shine On You Crazy Diamonds”, spazializzano il tutto. Una meraviglia. Chiude un inutile remix di “You’re Gone”.
Per i comuni mortali il disco finisce qui. Per i fanatici che si sono procurati la versione doppia c’è un altro dischetto di trentaquattro minuti con quattro brani di cui due inspiegabilmente (o no?) omessi dalla versione ufficiale: la lunga suite “Ocean Clouds” (diciotto minuti), bella, nello stile del gruppo, intensa, e la più breve “Genie”, stile un po’ U2 di “One”, non riesco a non cantarla quando l’ascolto in macchina e spesso metto repeat. Vi basta?
Alla fine? Un bel disco, molto convincente, progressive al 100% (non è un buon motivo per evitarlo) ma al contempo esente da muffe e licheni.
Il miglior disco dei Marillion dai tempi di “Brave”.
voto 7 ½
by Doktor Kiusi
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