Due sono le certezze che hanno caratterizzato l’infanzia e l’adolescenza di Kevin Morby, il viaggio e il cambiamento. Dopo la nascita a Lubbock (paese natale di Buddy Holly), causa il lavoro del padre, impiegato alla General Motors, la famiglia comincia a peregrinare in continuazione, dal Texas a Detroit, Tulsa, Oklahoma City a Kansas City dove Kevin potrà trovare un po’ di stabilità, ma verrà colpito da frequenti attacchi di panico.
Nel 2006, per sua volontà, si trasferì a New York, con zainetto sulle spalle e dosi di ansiolitici. Entrò in contatto con il mondo musicale newyorchese e divenne parte dei Woods di Jeremy Earl come bassista ed in definitiva come comprimario, lui che ambiva ad essere compositore ed esecutore di materiale autografo. L’esperienza gli servirà comunque per tessere amicizie e conoscenze che si riveleranno utili in futuro per il suo debutto solista. Prima si sottopose ad un ulteriore trasferimento a Los Angeles, luogo sconosciuto, ma che gli permetterà di trarre ulteriore ispirazione. Per iniziare Morby sceglie di riavvicinarsi alla musica tradizionale americana (folk, rock’n’roll e blues), con Bob Dylan, Bill Fay, Lou Reed e Leonard Cohen a formare il pantheon nel quale Kevin trova rifugio spirituale.
Con i suoi acclamati lavori solisti (ad oggi quattro per l’ex Woods: “Harlem River” del 2013, “Still Life” del 2014, “Singing Saw” del 2016 e “City Music” del 2017) e le varie collaborazioni che lo hanno visto protagonista nel corso degli ultimi anni (tra cui il bellissimo live registrato presso gli studi della Third Man Records di Jack White e lo splendido split EP realizzato con la rivelazione Katie Crutchfield e i suoi Waxatchee) il nostro è ormai considerato uno dei profili più interessanti della scena indipendente americana, un autore e musicista di razza da cui tutti si aspettano il salto di qualità definitivo. “Oh My God” non è proprio un album religioso, non nel senso più stretto del termine, ma più spirituale, legato ad un determinato linguaggio. E’ il primo vero e proprio concept firmato dal giovane autore texano e dedicato ad un tema immortale, quello dell’anima.
Se “Singing Saw” è stato il disco losangelino di Morby quello in cui si materializzano le vedute bucoliche dell’Ovest che accompagnano l’ascoltatore verso l’entroterra californiano, arido ed inospitale, oppure da visione degli ammalianti rossi tramonti durante una malinconica passeggiata, e “City Music” quello newyorkese tipico lavoro urbano e adatto per ascolti lungo le strade di qualsiasi metropoli, allora il nuovo ‘Oh My God’ è quello astratto.
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