Ci fu un momento, grosso modo a metà degli anni novanta, in cui la decade in questione fu sommersa da axemen, tutti ancora teenager, e che si potevano ascrivere al genere rock-blues. Mi ricordo di “Monster Mike Welch, Johnny Lang e Kenny Wayne Shepherd (no Joe Bonamassa ancora non era arrivato).
Causa l’uscita di un suo nuovo album solista, oggi vi racconterò le gesta di Kenny Wayne, bluesman e rocker della Louisiana (l’essere nato in tale stato gioca sicuramente a suo favore). Non ha mai raggiunto la fama di Bonamassa, ma c’è da considerare che non pubblica dischi in continuazione come Joe (solo una decina in ventiquattro anni di carriera).
Ultimamente il suo nome ha avuto un’impennata tra gli appassionati, causa la sua partecipazione come membro dei Rides, gruppo in cui divide compiti con Stills e Barry Godberg, anche se le sue uscite maggiormente convincenti sono quelle in ambito blues, rock-blues, quindi dischi quali “Ledbetter Heights” (1995), “10 days out: blues from backroads” (2007), “Goin’home” (2014) e lo scoppiettante album dal vivo “Live! In Chicago” (2010). Devo dire in tutta onestà che la qualità media non è mai scesa sotto il livello di guardia. “The traveler” risulta un buon disco, contiene alcune canzoni sopra la media, ma non lo colloco tra i suoi migliori. La cosa che risulta ad un primo ascolto è la sua migliorata capacità al canto, probabilmente l’esperienza nei Rides gli ha giovato, considerando che Stills lo ha incoraggiato a cantare. Ora divide le parti vocali con il suo vocalist storico, Noah Hunt.
Il lavoro inizia con un pezzo di rock viscerale e duro, non eccezionale, ma ha una sua logica posto in apertura. Meno riuscito il brano successivo, “Long time running”, con la sua durezza di fondo ed una melodia fin troppo risaputa.
Con “Timewind” l’asticella sale, ballata elettrica con una scrittura solida che si ascolta con piacere. Tra le cose più appassionanti si colloca “Better with time”, in cui il nostro riesce a scrivere una canzone dotata di melodia e con una parte strumentale di gran livello.
Abbiamo poi due covers che si segnalano come le cose migliori dell’opera in questione. La prima è la famosissima “Mr. Soul” (Buffalo Springfield), l’interpretazione è tirata con un uso insistente dei fiati dietro alla voce: la traccia mi è sempre piaciuta da impazzire e Sheperd è bravo a personalizzarla. La seconda è una composizione di Joe Walsh dal titolo “Turn to stone”, una ballatona tipica dei seventies che il nostro chitarrista della Louisiana interpreta con personalità, donandoci deliziosi momenti alla sei corde. Forse il punto più alto del lavoro.
Un album che potrà apprezzare un pubblico dedito a sonorità rock del passato, ma non si tratta, ripeto, di un grande disco, solo di uno nella media!!!


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