Josephine Foster è una delle migliori cantautrici degli anni duemila senza tema di smentita. Possiede originalità e sarebbe da preservare per la sua capacità di scrittura in modo da poterla tramandare ai posteri. Si presenta a noi con un nuovo album pubblicato dalla Fire Records e si tratta di un lavoro voluminoso in termini di durata, più di un’ora e un quarto, e pure in ragione del contenuto, preghiere, rituali, lamenti blues che si muovono alla ricerca di spiegazioni per quanto riguarda i temi eterni della mortalità e della morale. Queste almeno le parole usate dalla nostra per introdurci al nuovo lavoro. Sembrerebbe di trovarci di fronte ad un’opera di tipo filosofico misticheggiante, e Josephine è spesso caduta in tale retorica, ma ha anche brillantemente superato la faccenda grazie ad una capacità compositiva di così alto lignaggio che si è portati a perdonarle ogni cosa.
Strumentalmente si divide tra chitarra acustica, pianoforte, organo e arpa e grazie all’aiuto di Victor Herrero alla sei corde elettrica, Gyoa Valtysdottir al violoncello, Chris Scruggs alla pedal steel, John Estes al basso più membri dei Cherry Blossom ci consegna il disco più vario per quantità di stili toccati.
Supera l’etichetta di folksinger per abbracciare quella di songwriter capace di miscelare la tradizione e il rock consegnando una musica dotata di arrangiamenti di gran classe, un uso parsimonioso dei vari strumenti, assoli quanto mai calibrati e piccoli disturbi per rendere il tutto meno scontato.
Ci si muove lungo un solco che fa dell’eterogeneità la propria cifra stilistica. Momenti neoclassici (“Soothsayer song”), ballate jazz per crooner (“A little song” e “The peak of paradise”), ancora ballate che ci riportano alla migliore west coast al femminile cioè Joni Mitchell (“The virgin of the snow”, “All pales next to you”). Le tradizioni country e folk non sono dimenticate e vengono a galla in momenti come “Benevolent spring” e “Force divine”. Il disco sa offrirci anche ninne nanne in salsa tex-mex (“Pining away”), situazioni non facilmente classificabili come “Lord of love” dal sapore western e dai tono oscuri che diventa coinvolgente sul finale durante un assolo di organo che ci lascia senza fiato.
La title track, che chiude il lavoro, riesce a trasformare in una melodia ottocentesca momenti di improvvisazione e psichedelia tipici degli anni sessanta.
Un disco adatto a palati fini che ancora una volta pone Josephine su un piedistallo su cui pochi potranno solo pensare di potersi collocare!!!


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