Lo ricordo come fosse ieri il 1982!
Era un periodo di scoperte continue per me ventenne. Era l’anno di ‘Imperial Bedroom’, ‘Night and Day’, ‘Nebraska’, era il periodo in cui scoprii un sacco di beautiful losers, quali Garland Jeffreys, Graham Parker, Willie Nile, David Johansen, Willy DeVille, Southside Johnny, Elliott Murphy e ultimo ma non ultimo, John Cougar. Il suo album s’intitolava ‘American Fool’, ed era il suo quarto da sommare ad altri due abortiti per strada. Il disco andò in testa alle classifiche di vendita e portò in dote due brani che furono grandi hits, ‘Jack & Diane’ e ‘Hurts So Good’. Riascoltato oggi non ha lo stesso impatto di allora, il suono e gli arrangiamenti sono gonfi ed eccessivi, tipici di tanti dischi mainstream dell’epoca in cui certi eccessi produttivi rovinarono non pochi lavori. Io però vorrei narrarvi del disco successivo ‘Uh-Huh’ uscito nell’ottobre 1983 a cui mi avvicinai con circospezione a causa di recensioni poco lusinghiere in cui si parlava di lavoro un po’ risaputo, già sentito, in cui mancava quella forza e voglia di emergere e di sfondare in quanto il traguardo era stato raggiunto con ‘American Fool’. Fortunatamente non mi feci influenzare più di tanto perché, fin dal primo ascolto, mi resi conto che si trattava di un signor disco e di un deciso stacco con quanto prodotto in precedenza. Una musica legata alle radici ed in grado di dispiegare un potente e nervoso folk rock con spruzzate di soul. È il primo album in cui, accanto a Cougar appare anche il suo vero cognome, Mellencamp. John lo produce con a fianco Don Gehman, ed è l’inizio di un periodo sfolgorante che terminerà nel 1989 con ‘Big Daddy’. ‘Uh-Huh’ si apre con una tripletta di brani da urlo che ci lascia attoniti e senza possibilità di reagire dopo appena dodici minuti dall’inizio. ‘Crumblin’ Down’ è un perfetto inizio rock rollingstoniano che verrà continuamente proposta dal vivo. ‘Pink Houses’ ci mostra la raggiunta maturità di Mellencamp come songwriter, si tratta di una ballata stupenda e ricca di feeling. ‘Authority Song’ è una ‘I Fought the Law’ vent’anni dopo con chitarre incendiarie. Naturalmente anche gli altri brani non sono dei semplici riempitivi, ma mantengono l’opera su alti standard qualitativi. Mi preme sottolineare ‘Jackie O’ venata di roots grazie alla presenza di un redivivo John Prine e ‘Golden Gates’, altra ballata da pelle d’oca. Oltre alle canzoni, vorrei rendere merito alla band di John, le chitarre di Mike Wanchic e Larry Crane sono delle lame che non ci lasciano scampo, il basso di Toby Myers sembra un sarto che cuce tutte le parti sonore e la batteria di Kenny Aronoff…. Bé, quella è fuori concorso…
Grazie a questi musicisti il nostro riesce a dare alle stampe un lavoro che miscela al meglio Bob Dylan, Rolling Stones e James Brown.
Riascoltatelo, non ne rimarrete delusi.

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