Mi risulta sempre difficile trovare negatività nei dischi di Joe Henry.
Fin dal primo album, ‘Talk of Heaven’, pur acerbo, si possono riscontrare capacità superiori alla media. È presente pure una cover di Van Morrison, ‘Wild Night’, che insieme agli altri pezzi gli permette di suonare nei club e di firmare per una major come la A&M che dà alle stampe nel 1989 ‘Murder of Crows’ con un budget importante e musicisti di spessore (Anton Fier, Chuck Leavell, e l’ex Stones Mick Taylor) che non intaccano le visioni di suoni che Joe ama. Ci sono un paio di pezzi notevoli, ‘Step Across The Mountain’ e ‘Lose Me’, due ballate ispirate impreziosite dalla slide di Taylor. È col successivo ‘Shuffletown’ che si assiste ad un notevole stacco con atmosfere jazzate e notturne grazie alla presenza di Cecil Mcbee al contrabbasso e Don Cherry alla tromba. Siamo nel 1990, Henry si trasferisce a Los Angeles con la moglie e firma per la piccola Mammoth Records. Nel 1992 pubblica un eccellente lavoro ‘Short Man’s Room’ con la collaborazione dei Jayhawks. Ma Joe Henry è irrequieto, sempre alla ricerca di qualcosa di diverso che lo porta alla pubblicazione di ‘Trampoline’ con soluzioni alternative grazie alla presenza in studio di Page Hamilton degli Helmet e lui che imbraccia raramente l’acustica per dedicarsi all’organo a pompa e ad una chitarra con l’effetto tremolo sugli scudi. Siamo sempre di fronte a canzoni di alto livello, non solo per arrangiamenti e suoni. Dal 1999 al 2003 ci regala altre tre perle come ‘Fuse’, ‘Scar’ e ‘Tiny Voices’ per dimostrarci che non è più il songwriter classico degli inizi, ma un musicista che si permette di suonare con Mark Ribot e Ornette Coleman. Parallelamente intraprende una carriera di produttore che lo porta in poco tempo ad essere uno dei migliori sulla piazza (ricordiamo le produzioni per Solomon Burke e Bettye LaVette), al pari di T Bone Burnett. È di questi giorni l’uscita del nuovo ‘Thrum’ che prosegue nel filone inaugurato con ‘Reverie’, il suono è sempre jazzato ed avvolgente ed è registrato in presa diretta con la band in studio, ormai un marchio di fabbrica. C’è la massima cura nei dettagli, come la chitarra ruvida di ‘Climb’, il quartetto d’archi in ‘Hungry’, il passo acustico di ‘Quicksilver’ oppure la combinazione fiati e chamberlin in ‘Now And Never’. È un lavoro che privilegia l’atmosfera alla melodia ma che non sorprende come avvenuto in passato.
Eppure ci affascina di nuovo.

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