La scorsa settimana un cliente, discretamente appassionato nonché musicista da anni per diletto, mi chiese se conoscessi Gene Clark. La mia reazione fu di stupore, come si fa a non conoscere l’ex Byrds, poi la mia mente cominciò un veloce ripasso a ritroso della carriera del nostro. Gene era il più mite e solitario della formazione californiana, il primo a mollare dopo l’uscita del terzo album “Fifth Dimension” a causa delle difficoltà della vita on the road. Era figlio di un appassionato della country music più genuina e ruspante per cui, fin da piccolo, ne carpì i segreti attraverso l’ascolto dei dischi di Hank Williams, ma anche del primo Elvis Presley che era debitore a sua volta nei confronti di quella musica.
Nei Byrds firmò la stupenda “I’ll feel a whole lot better” e contribuì alla stesura di “Eight miles high”, inno psichedelico. La sua penna si fece notare anche in episodi meno appariscenti quali “Set you free this time” e “If you’re gone”. Una volta chiamatosi fuori dal gruppo, nel 1966, e prima di imbarcarsi nella carriera solista, Clark fece alcune esperienze. Nel 1967 pubblicò un lavoro con i fratelli Gosdin (“Gene Clark with the Gosdin Brothers”), che non ebbe particolari riscontri anche perché pubblicato nella stessa settimana del quarto album dei Byrds.
Successivamente si mise assieme ad un vecchio amico, Doug Dillard, per un paio di raccolte a nome Dillard & Clark, che risultarono troppo avventurose per quei tempi. Bisognò attendere il 1971 per ascoltare, finalmente, un’opera a lui intestata cioè “Gene Clark” anche noto come “White Light”. Si trattava di un grande lavoro che vedeva la partecipazione del chitarrista Jesse Ed Davis e conteneva la splendida versione di “Tears of rage” di Dylan (che si dichiarò ammirato da “For a spanish guitar” a causa della sua stordente bellezza). Il disco ebbe una notevole personalità grazie al chitarrista pellerossa che fece dimenticare il lavoro alla Rickenbacker che era solito donare McGuinn anche nei titoli firmati da Gene.
Ed eccoci arrivare al biennio 1972-1974 in cui il cantante sforna due titoli, “Roadmaster” e “No other”, entrambi dal potenziale enorme, ma che fallirono miseramente. Lo avrebbero potuto lanciare nel firmamento dei grandi di quel periodo come Jackson Browne, Neil Young e Joni Mitchell, ma invece decretarono l’inizio della sua parabola discendente che terminò con l’oblio.
Riuscì a sollevarsi solo nel 1987 grazie ad un album uscito in coppia con Carla Olson, “So rebellious a lover”, opera degna dei suoi momenti migliori. Poi un lento declino che si concluse con la morte nel 1991, quasi da dimenticato, lui che poteva vantare la firma su alcune delle più belle canzoni della nostra musica. Ecco in breve cosa mi passò per la testa alla richiesta del cliente di cui sopra, quindi, si, lo conoscevo bene, artisticamente parlando.
Il motivo di quella domanda era dovuto al fatto che aveva ascoltato in rete la ristampa, ad opera di 4AD, di “No other”. Lodato dalla critica ma snobbato dal grande pubblico nel 1974, anno della sua uscita, rivalutato nei decenni seguenti ed annoverato a buon diritto tra le di pietre miliari del genere “Americana”,” No Other” di Gene Clark resta a distanza di anni uno degli album più affascinanti, e per certi versi enigmatici, di sempre. In questi giorni la storica label britannica 4AD ha pubblicato il lavoro discografico in alcuni formati, tra cui un boxset deluxe che, oltre alla versione rimasterizzata negli studi Abbey Road di Londra da Sid Griffin dei Long Ryders e John Wood, vede al suo interno la bellezza di tre CD di out-takes ed un Blu-Ray disc contenente il film “The Byrd Who Flew Alone: The Making of No Other” oltre al libro “No Other: The Making of A Masterpiece”, più un 7″ ed un poster commemorativo.
Fu prodotto dal folle e talentuoso Thomas Jefferson Kaye e, ancora oggi, risulta un gran bel lavoro ricco dal punto di vista compositivo, musicale, lirico e della produzione in cui furono coinvolti notevoli ed importanti personaggi della scena musicale dell’epoca. L’opera è una gemma sfaccettata capace di destreggiarsi tra svariati generi musicali. Vi sono tracce di country-rock in episodi quali  “The true one” e “Lady of the North” (co-firmata proprio con Dillard) che confermano l’approccio unico del nostro verso il country: oltre gli steccati di genere. Un country sommesso e dirompente nella sua introspezione, capace di forgiare proprio su “Lady of the North” un’autentica e tenebrosa seduzione visionaria (“Ah, fine lady of the North, like silver on the ocean shore”), non dissimile dal Dylan di “Nashville Skyline”.
Ma “No other” è soprattutto l’album più ambizioso nel catalogo di Clark, a causa della complessa produzione di Jefferson Kaye. In alcuni frangenti si inseguono situazioni che riecheggiano Phil Spector, con profusione in particolare di cori gospel. Pezzi come “Strenght of strings” e “From a Silver phial” crescono dopo pochi ascolti. Melodie incantevoli apparentemente perse dentro calibratissimi arrangiamenti, nascoste per poi sbucare repentinamente, diventando rapidamente memorabili. Se il Clark che amiamo è quello dalla voce potente e maschia bisogna rivolgersi a “Life’s greatest fool” e “No Other” che sono in tal senso prodigiose, mentre “Silver raven” è dilatata verso figure free che incantano per purezza e armonia, grazie anche a un testo che come sempre cattura il senso di disillusa comprensione verso la caducità delle cose, evitando mirabilmente le secche dell’autoindulgenza e della retorica.
In un mondo che funzionasse un autore come Gene sarebbe da porre al livello dei grandi quali Bob Dylan e Neil Young, ma il suo scrutare tra l’oscurità dell’esistenza e il percorrere strade dissestate e pericolose lo hanno portato all’oblio.
Facciamo in modo che questa ristampa riaccenda il suo nome nella passione degli ascoltatori!!!


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