Inizio dicembre 1976 mi reco nel negozio di dischi che è diventato il punto di ritrovo consueto da sei mesi a questa parte. Il locale è di dimensioni ridotte, per cui, una volta entrato, faccio fatica a muovermi perché è stipato di persone come mai lo avevo visto in precedenza. Con tutta l’ingenuità di un novellino chiesi al negoziante come mai ci fossero tutti quei clienti e mi rispose perché stava aspettando il pacco che conteneva il nuovo album degli Eagles, “Hotel California”. In tutta sincerità non conoscevo il gruppo, ero alle prime armi in campo musicale e tutto quello che avevo acquistato fino ad allora si era sempre rivolto a formazioni britanniche. In ogni caso ero entrato per acquistare un disco, ma senza avere ben chiaro chi volessi portare a casa, per cui, se tanta gente aspettava quel lavoro, non poteva essere un’opera qualitativamente scarsa.
Mi accodai e comprai anch’io quel vinile senza sapere cosa stessi facendo. Non appena misi il Lp sul piatto e iniziai l’ascolto rimasi totalmente deluso. Sembrava musichetta molto leggera, i brani tutti abbastanza corti (allora ascoltavo molto prog per cui la durata dei pezzi a cui ero abituato era spesso superiore ai cinque minuti).
In una sola parola, delusione. Accantonai gli Eagles per lungo tempo, fino al momento che i miei gusti non si rivolsero ai suoni di matrice americana. Dopo aver fatto miei anche gli abums precedenti delle “Aquile californiane” mi risultò chiaro che mi trovavo di fronte ad un gruppo di eccellenti musicisti e che il famoso lavoro che acquistai tanti anni prima era da considerare il loro migliore di sempre e pure un magnifico esempio di west coast sound, ma nel momento in cui tale suono stava volgendo al termine. Le melodie sono impeccabili, la tecnica strumentale più che egregia, le armonie vocali di tipica scuola californiana, ma non si vuole descrivere il tipico “American dream”, quanto offrirci una tela sonora che raffiguri la decadenza del sogno a stelle e strisce. La musica non dà l’idea di spazi aperti ed incontaminati, ma è claustrofobica tipicamente urbana e losangelina e che sembra voler condurci verso l’autodistruzione.
Il brano omonimo è l’esempio calzante di quanto appena affermato. Si inizia con un’autostrada deserta e il vento freddo che soffia fra i capelli, un viandante stanco in cerca di un rifugio per la notte, e poi… Poi, la meta: un posto che sembra il paradiso ma forse è l’inferno, un posto in cui puoi ascoltare l’eco real-irreale di parole tipo queste: «Benvenuto all’Hotel California / Un posto così amabile / Un volto così amabile / Ci sono tante camere all’Hotel California / In ogni momento dell’anno puoi trovarne una». Prima dell’uscita del disco i nostri erano sotto pressione, la casa discografica voleva un lavoro che vendesse parecchio, i membri del gruppo erano in uno stato pietoso a causa di eccessi da uso di cocaina, sesso sfrenato e l’idea che tutto fosse loro concesso.
Il resto del programma presenta pezzi che si muovono tra ballate, utilizzo di archi e sussulti rock, ma ciò che rimane impressa per sempre è l’immagine di copertina: che ci offre uno scatto crepuscolare del mitico Beverly Hills Hotel, meglio conosciuto come Pink Palace, che si trova al 9641 di Sunset Boulevard, Los Angeles, ed è la decadente meta di un sacco di star e starlette che affollano il sottobosco hollywoodiano.
Ovviamente, il disco farà sfracelli nelle classifiche di vendita: perché “Hotel California” è senza dubbio uno dei pezzi apripista più magnetici della musica pop.
Ma anche il resto delle songs in scaletta ha delle carte da giocarsi. “New kid in town” ha un andamento molto piacevole e deve la sua fama al guitarrón mexicano suonato da Randy Meisner, ci parla della caducità dell’amore e della fama, “Life in the fast line” si ricorda per il riff di Joe Walsh e per delle liriche che una volta di più vogliono mostrarci il tema della decadenza.
“Wasted time” è il tentativo della coppia di autori Henley/Frey di dare vita ad una torch song che richiami il tipico stile di Philadelphia e di Teddy Pendergrass in particolare, e la conclusiva “Last resort” che tra le pieghe del testo cela una profonda critica della economia del libero mercato.
Un lavoro in cui il suono si fa più quadrato ma che non manca di offrirci brani che dispensano carezze e tepore.
“Hotel California” ha avuto e di sicuro avrà sterminate legioni tanto di ammiratori quanto di detrattori.
Una cosa però è certa: l’LP ha venduto, nei soli States, sino al 2013, la bellezza di 17 milioni di copie, e si è imposto come uno dei concept sul lato oscuro della Fama più riusciti nella Storia del Rock. Non merita di essere bollato come musica di gradevole superficialità perché sotto c’è la sofferenza di musicisti in un momento in cui non potevano fallire ed erano sotto la più grande pressione che si possa immaginare.


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