DREAM SYNDICATE- “The Universe Inside”Ho profondo rispetto per Steve Wynn, stima che nasce dall’inizio degli anni ottanta con la prima incarnazione della band, prosegue anche dopo il ritorno successivo al primo quasi scioglimento (1984). Non ho mai fatto mancare il mio supporto durante la sua attività solista. Il motivo di questo affetto è dovuto al fatto che in lui rivedo un po’ me stesso, una grande passione per la musica, in tutte le sfumature possibili, un amante delle cose giuste, un curioso che non pone alcuna barriera all’ascolto dei dischi.
Devo dire che, dopo la pubblicazione di “How did i find myself here” del 2017, mai mi sarei aspettato che la formazione continuasse ad incidere. Invece mi sbagliavo, i Dream Syndicate sono tornati per restare, ormai non ci sono più dubbi. Assieme ai Wire li possiamo considerare il miglior ritorno sulle scene di sempre, perché non si sono limitati a riproporre quello che già suonavano quarant’anni fa, ma ricercano nuove strade come solo i veri artisti sanno fare. Ciò già si evidenziava con i due lavori precedenti, alcuni sforamenti in ambiti insoliti per il quartetto erano rintracciabili. Qui si aumenta la profondità di campo, l’obiettivo è aperto a 360°.
Il nuovo lavoro si intitola “The universe inside”, terzo album su Anti. All’ascolto del primo singolo, “The Regulator”, durata 20 minuti, siamo immediatamente colpiti sia dalla lunghezza che dalla musica. Anche il video, diretto da David Daglish, è qualcosa di insolito, un viaggio psichedelico nella città di New York, panoramico, sonnambulo e politico. Ciò che troviamo in questa nuova raccolta, secondo le note stampa, sono la conoscenza della musica avantgarde europea di Dennis Duck, la passione per il prog anni ‘70 di Jason, l’esperienza di Mark Walton con i collettivi di musica Southern-fried, la fame di Chris Cacavas per la manipolazione dei suoni e l’amore di Wynn per l’electric jazz vintage. Questo album si sarebbe potuto chiamar “The Art of The Improvisers” – in una sola sessione la band ha registrato 80 minuti di paesaggi sonori senza pause. “Tutto quello che abbiamo aggiunto era aria,” afferma Wynn. Vale a dire, oltre a voce, corni e un tocco di percussioni – ogni strumento è stato registrato in presa diretta. Così come descritto sembra un calderone senza senso, un abominio!!!
Fortunatamente all’atto pratico siamo sempre nel campo del rock, capace però di muoversi in situazioni tangenziali continue rimanendo organico, coeso e fluido. Ritmiche motorik, atmosfere jazzate e da vecchie colonne sonore, voci spesso nascoste tra le pieghe del suono, inserti strumentali mai proposti (dalla tromba al sax, dalle percussioni al sitar elettrico e persino una pedal steel), un approccio molto onirico, da viaggio lisergico, il disco si pone come una deviazione considerevole rispetto a tutta la discografia dei californiani. Non mi sarei mai aspettato di dover usare nomi quali Sun Ra, Can, Fela Kuti, termini come jazz elettrico, afrobeat e avantgarde come riferimenti.
Forse è il caso di aggiungere che siamo di fronte ad un’opera che non vede la band suonare ”pezzi di Wynn”, ma un vero lavoro di gruppo in cui le tastiere di Cacavas e i fiati di Marcus Tenney sono di pari dignità rispetto alle schitarrate di Steve e Victor oppure alla ritmica motorik e compatta come non mai di Duck e Walton.
Ancora una volta sono stato contento di aver ascoltato un nuovo disco dei Dream Syndicate perché mi è stata offerta la possibilità di affermare che non mi deluderanno mai e saranno sempre onesti nei confronti di chi li ama!!!


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