Nella sua ormai ventennale carriera solista, David Sylvian si è districato tra una produzione estremamente raffinata ma sostanzialmente legata alla forma canzone, (da “Brilliant trees” a “Dead bees on a cake” passando per la collaborazione con Fripp) magari anche di buon impatto melodico e commerciale, e produzioni tra l’ambient e l’avanguardia (i dischi con Czukay, l’ultimo “Approching silence” ). In tutti i casi anche da parte di chi, come me, lo apprezza e non poco, se una accusa può essere fatta alla sua produzione è quella di una forse eccessiva levigatezza e morbidezza nel sound, una ricercatezza e un perfezionismo sonoro molto affascinante ma che può essere anche visto come una limitazione espressiva. Sylvian ha fatto molta strada dai tempi dei Japan ma nella sostanza la matrice di quel rock estetizzante gli è rimasta addosso. Forse per questo ha deciso di uscire nel 2003 con questo “Blemish”, decisamente una linea di rottura rispetto al suo passato. Disco dapprima fantasma, poi disponibile solo in internet, poi distribuito male e a caro prezzo. Un disco che è un soliloquio, non più ospiti prestigiosi e arrangiamenti a tutto tondo, Sylvian suona quasi tutto da solo, la sua voce, decisamente più un recitato che un cantato, è accompagnata da pochi effetti elettronici minimali, qualche intervento di chitarra del famoso improvvisatore free-jazz Derek Bailey e poco altro. Disco che potrebbe essere nato in una, o poco più, sedute di registrazione, spontaneo, intimista, essenziale, direi scheletrico come mai ci saremmo aspettati dall’artista. Disco pervaso della stessa asciuttezza e intimità rilevabile, in ambiti molti diversi, nel Nick Drake di “Pink moon” o nel Wyatt di ” Dondestan”.
Si parte con la titletrack, introdotta da effetti elettronici in loop, poi la voce, quella sì immutata, profondissima, che accompagna tutto il pezzo in un lento salmodiare, una specie di mantra da terzo millennio con un raggelante ma lirico contrasto tra la componente umana della voce e l’accompagnamento robotico e a tratti dissonante. L’anima dell’intero lavoro è già nel brano di apertura. Si prosegue con “The good son” e questa volta l’accompagnamento è principalmente affidato alle improvvisazioni di Bailey alla chitarra acustica con Sylvian che più che cantare sembra raccontarci una storia in un brano che poco concede ad un ascolto distratto. Poi “The only daugther” che riprende il primo brano in maniera ancora più minimale, con un accompagnamento più morbido che mi ricorda i lavori con Czukay. Il clima non cambia con “The heart knows better”, la voce continua il suo lento dispiegarsi, pigra ma ineluttabile, ipnotica ma inquietante; non c’è consolazione né serenità in “Blemish” ma un ripiegarsi impercettibile verso una silente angoscia. Poi la brevissima “She is not” sempre con Bailey, poi “Late night shopping” dove appare una cantabilità inedita per il disco, poi “How little we need to be happy” ancora con un Bailey particolarmente destrutturante e cacofonico e siamo al finale con i gorghi elettronici di Fennesz in “A fire in the forest” che conclude il cd in maniera al contempo più tagliente e meno angosciosa, quasi romantica.
Disco difficile da giudicare in acuto, non mi stupirei né se tra qualche anno venisse giudicato una pietra miliare né se fosse completamente dimenticato. Risulta, comunque lo si guardi, un prodotto coraggioso e radicale che poco concede all’ascoltatore, uno di quei dischi che cambiano durante l’ascolto la nostra percezione dell’ambiente e di noi stessi, uno di quei dischi notturni e intimisti da ascoltare in solitudine uno o due volte l’anno. E allora forse è meglio affidarsi alle sensazioni e valutazioni primitive, banali ma orientative come non mai: mi sono annoiato? Si, certo che mi sono annoiato, ma ne sono stato anche rapito e conquistato e al quarto ascolto il disco mi sembra migliore che al primo. L’ho pagato caro, lo ricomprerei? Si, senza dubbio.
Voto 7
Doktor Kiusi
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