BUDOS BAND: “Long In The Tooth” cover albumC’è di tutto – dall’afrobeat scandito dal suono dell’organo Farfisa a riff hard ed elettrici che non hanno nulla da invidiare ai Black Sabbath o ai Led Zeppelin – nella musica della Budos Band, gruppo newyorkese di Staten Island con una potente e dinamica sezione fiati che nel nuovo “Long In The Tooth” vuole riallacciarsi esplicitamente alle sonorità dei suoi primi due album e a certe influenze hip-hop confezionando un disco ad alto tasso di ballabilità.

Il groove pulsante e il clima allucinato della title track sono un perfetto biglietto da visita: immaginate Link Wray che collabora con Mulatu Astatke o la colonna sonora di un film horror italiano e avrete un’idea della musica della Budos Band, capace in questo nuovo disco di miscelare Fela Kuti, Morricone, dub e psichedelia.

Il titolo dell’album un gioco di parole forse ovvio ma non per questo meno soddisfacente che parla sia della longevità che dello stile del gruppo. Le evocazioni del serpente sono state a lungo la chiave delle uscite di Budos, adattandosi agli analoghi visivi per lo stile serpentino del gruppo mentre si snodano avanti e indietro attraverso i confini del cinema retrò, dell’Ethiojazz dell’età d’oro e dell’anima psichedelica, il tutto con un lato sinistro. Inizia con la title track, un taglio feroce che dà il tono all’intero lavoro. Gli accordi d’organo di Mike Deller danno il via al pezzo con un impulso urgente; presto raggiunto da Brian Profilio su tamburi affilati e potenti. Sovrapponendo le linee di basso sinuose di Daniel Foder, Thomas Brenneck alla chitarra porta tutto il dramma di una resa dei conti con le colonne sonora di Morricone. Sempre emblematico della band è la sua sezione di fiati – Andrew Greene e Dave Guy alla tromba, Jared Tankel al sax baritono – che qui sembra suonare la carica in una grande eccitazione. A completare l’ensemble c’è Bobby Lombardo sulle congas, che aggiunge un sottile riferimento finale ai thriller di spionaggio degli anni ’60 e ’70. Un ronzio ultraterreno colma il vuoto nella traccia successiva, “Sixth Hammer”, una canzone particolarmente roboante piena di echi elettronici durante la quale Tankel intona un assolo infuocato che dà al pezzo un picco distinto. “Snake Hawk” presenta, per la maggior parte, un brano breve e quasi interstiziale, soprattutto rispetto al brano successivo “Dusterado”. Qui, la band è risoluta, una cadenza di batteria militaresca che introduce trombe lamentose e la pericolosità della chitarra di Brenneck. È una perfetta inquadratura del gruppo come fuorilegge del grande funk – una reputazione ulteriormente esplorata quando “Silver Stallion” inizia. Un esempio particolarmente chiaro del dinamismo che contraddistingue il gruppo dagli altri ensemble strumentali funk, li vede muoversi attraverso momenti di conflitto ed estasi. Una tromba imita il nitrito di un cavallo poco più di un minuto dopo, e mentre la traccia si avvicina alla fine, la chitarra si lancia in un assolo frenetico degno di Hendrix che galoppa in lontananza. Quindi appare “Budonian Knight”, che innesca una maestosa penultima composizione. Una freddezza si fa strada, aprendo la via alla trascendente traccia finale “Renegade”. Cominciando con un’introduzione che fa direttamente riferimento alle modalità pentatoniche chiave dell’Ethiojazz, presto rallenta e si espande in uno stato di gravità zero prima di girarsi per muoversi apparentemente all’indietro e svanire, trascinato in una raffica di vento sonico.

Quando si pensa di conoscere tutto di un gruppo e non ci aspetta alcuna novità, ecco che i nostri si spingono continuamente verso nuovi territori!!!


Category
Tags

No responses yet

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *