KEVIN MORBY: “Sundowner” cover album“Sundowner” è il nuovo album di Kevin Morby, ex-membro degli indie folk rockers Woods, uscito via Dead Oceans, a un anno dal precedente “Oh My God”. Nel 2017 il musicista si è trasferito da Los Angeles a Kansas City, lasciandosi alle spalle i ritmi frenetici della metropoli californiana per concentrarsi sulla musica. Il nuovo LP è stato infatti concepito in Kansas, ma registrato in Texas e si presenta come un disco di folk-rock classico, senza arrangiamenti superflui. L’essenza di un suono tipico del Midwest che permea tutti i dieci brani di cui è composta la raccolta, costruiti sulla chitarra e la voce, a cui si aggiunge una sezione ritmica non invadente, mellotron e organo a pompa. Prezioso il contributo di Katie Crutchfield (Waxahatchee), compagna di vita, alla voce. Insieme hanno condiviso un isolamento, dapprima per libera scelta, poi imposto dagli eventi.

Durante la prima estate in Kansas condivisa con Kate, hanno constatato di avere molti punti di contatto, specialmente la comune melanconia per i tramonti; da lì “Sundowner”, poi divenuto il titolo dell’album. Morby ha lavorato ai provini delle canzoni nella nuova abitazione, utilizzando un registratore a quattro piste Tascam: «Ho scritto l’intero album con delle cuffie in testa, curvo sul mio Tascam 424 e lasciando che voce e chitarra scorressero attraverso di esso. Ero incantato dalla magia del quattro piste e non solo come apparecchio di registrazione, ma anche come un vero e proprio strumento, tanto da arrivare a considerarlo il mio compagno di scrittura durante il processo creativo». Per la registrazione del disco vero e proprio, Morby si è avvalso invece di Brad Cook e dei Sonic Ranch Studio in Texas, partendo per il tour di “Oh My God” subito dopo le registrazioni, mentre “Sundowner” rimaneva parcheggiato in un hard drive dello studio texano. Solo durante la quarantena il nuovo album è stato terminato grazie al lavoro da remoto di Brad e Kevin.

Il nostro si dimostra uno dei migliori songwriters odierni, uno che conosce la musica, ma sa anche scrivere testi intrisi di intimità, senso della perdita e abbandono. È un disco di ballate, spesso arrangiate in termini minimali e strumentazione acustica. Ci si muove sull’asse Cohen nella title track, soprattutto per l’uso delle parole, ma non è difficile riconoscere Lou Reed in “A night at the little Los Angeles”. Un velo di orientalismo fa capolino nella leggermente psichedelica “Brother, sister”. La tristezza avvolge ”Jamie”, racconto dedicato a coloro che hanno perso la via da seguire, puntellata dalle note di un pianoforte. Notevole “Campfire” tranquilla e sofferente, con i field recording della propria esistenza (il fuoco e il canto indiano di Kate) poco prima che il brano termini e si percepisca che l’autore si è arreso.

Splendida rappresentazione sincera del disorientamento e della solitudine da parte di un autore che sembra sempre cercare nuove modalità per esprimersi al meglio!!!


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