Ormai da anni avevo smesso di seguire questo signore che tanto mi aveva dato, a livello emozionale, a cavallo tra gli anni settanta e l’inizio della decade successiva. Il mio Springsteen, forse, terminava con “Nebraska”, registrazione casalinga tutto da solo e carico di un’intensità forse mai più ritrovata. Non ero tra quelli, tanti, che hanno apprezzato il disco dello scorso anno “Western stars”, con una ricchezza di arrangiamenti ed orchestrazioni che andavano a seppellire le canzoni. Mi trovavo, quindi, ad essere molto dubbioso a riguardo del nuovo “Letter to you”, non mi aspettavo nulla, dopo tanti anni di album poco soddisfacenti dati alle stampe nell’ultima decade.
Bruce è tornato con la sua E-Street Band e con un suono compatto, con chitarre elettriche in evidenza, la batteria a dettare i tempi come nei momenti migliori e, come accadeva in passato, il pianoforte cha ammanta di lirismo le composizioni del disco. Una produzione che evita finalmente inutili rincorse ‘di tendenza’ e che si configura in sonorità orgogliosamente classiche senza apparire stantie o datate, per un album costruito sull’asse pianoforte-organo Hammond, il tutto ben controbilanciato dalle chitarre e dai suoni vividi di una batteria autenticamente poderosa, con accenni dell’amato sax ed infine la voce di uno splendido settantenne che canta, urla e declama con il cuore in mano.
Mentre Bruce Springsteen stava eseguendo le sue date a Broadway, l’iterazione teatrale delle sue memorie del 2016, il suo ex compagno di band adolescente, George Theiss, stava morendo di cancro. Ben prima della E Street Band, c’erano i Castiles, un incubatore dove Springsteen prima suonava la chitarra, poi cantava, dal 1965 al 1968. Grazie a una chitarra inaspettatamente donatagli da ‘un ragazzo italiano’ sulla porta del palcoscenico del teatro, altre canzoni cominciarono a uscire da Springsteen: canzoni sull’essere in una band, su amici assenti e venditori di olio di serpente. Ha informato Roy Bittan, il tastierista della E Street Band, dei nuovi brani durante un pranzo. Bittan consigliò al ‘Boss’ di lasciare le composizioni come schizzi, inaugurando un album in cui questa band leggendaria avrebbe potuto costruire le canzoni da zero.
È stato registrato tutto dal vivo, tranne le sovraincisioni; ci sono voluti quattro giorni e uno per riascoltare. Tre canzoni sono vecchie: una, l’eccellente “If I Was the Priest”, così vintage che Springsteen la suonò alla sua audizione del 1972 per l’A&R John Hammond della Columbia. Un’ altra, “Janey Needs a Shooter” è quasi arrivata ad essere pubblicata in diversi album di Bruce degli anni ’70. Questo aggiornamento trasforma un ritratto sfumato di un esagono d’amore in un ticchettio a ritmo medio, sacrificando l’intimità sessuale della canzone per un canto al pianoforte e armonica. Il disco inizia con Springsteen da solo, che suona la sua chitarra mentre un ‘grande treno nero’ arriva ‘lungo i binari’; mesto di fronte alla morte. ‘Un minuto sei qui, il minuto dopo te ne sei andato’, sussurra, mentre i vari membri della band si riuniscono al leader in tono dimesso – il piano smorzato di Bittan, il trambusto sommesso del batterista Max Weinberg e del bassista Garry Tallent. In mezzo, c’è un altro treno, questo in fiamme, e una canzone sull’amore, “The Power of Prayer”, la cui fede in ‘una coppia di cuori’ che va all-in è un soffio di auto-parodia.
Non sfigurano, pur senza esaltare, i due singoli che hanno anticipato l’album ovvero “Letter to you” e “Ghosts”, giova citare “Burnin’ Train” e (maggiormente) “Power of Prayer” che infiammano anima e corpo e “House of a thousand Guitars”, gemma che si erige a nuovo classico springsteeniano se pur apparentemente estraneo ai suoi consueti canoni stilistici.
Un lavoro che non mi riporta l’amato Bruce di tanti anni fa, ma mi riconcilia con un autore che avevo, ormai, dato per perso e che, invece, a settant’anni suonati riflette e ci fa riflettere sulla condizione umana di chi è giunto alla soglia del proprio tramonto, con un album che forse rappresenta il climax del suo percorso introspettivo!!!
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