Ancora ricordo, nel 1995, quando uscì l’album di debutto come solista di Brad Mehldau intitolato ‘Introducing’. Nessuno lo cercò, tranne un cliente che come me era molto attento alle note di copertina dei dischi, infatti Brad suonò il piano come sideman nel lavoro di Joshua Redman, pubblicato nel 1994, dal titolo ‘Mood Swing’. Il debutto del pianista passò inosservato nonostante fosse un’opera di tutto rispetto. Poi, strani casi del destino, la sua partecipazione all’edizione del 1997 dell’Umbria Jazz Festival modificò la sua carriera. Ancora oggi sono molti a ricordarsi di quell’esibizione che gli permise di entrare nel cuore degli appassionati. Da quel momento divenne un pianista molto seguito ed apprezzato, a livello di vendite secondo, forse, solo a Keith Jarrett. Il New York Times scrisse che Brad era il pianista più influente degli ultimi vent’anni, i puristi, ovviamente, dissentono, ma io credo che la verità possa stare in mezzo alle due affermazioni. Mehldau è la cosa più riuscita capitata al jazz da molto tempo a questa parte proprio perché è riuscito ad allontanarsi da un certo modo di intendere il jazz. Siamo ben lontani dai tradizionalisti alla Wynton Marsalis, che sostengono che il jazz sia solamente il bop compreso tra gli Anni Quaranta e Sessanta fino alla comparsa dell’obbrobrio del free, sono coloro che ritengono che vada suonato, ascoltato e preservato con rispetto filologico e a partitura scritta, quasi si trattasse di musica classica. Brad Mehldau possiede una formazione classica, ma ha voluto rinnovare e modernizzare l’enorme songbook da cui i jazzisti hanno attinto per decenni. Nel suo repertorio figurano brani contemporanei di indie, folk e rock, che spaziano dai Radiohead ai Nirvana, da Sufjan Stevens a Nick Drake, senza, naturalmente, rinnegare la storia che lo ha preceduto né rinunciare a comporre la propria musica. Senza di lui non avremmo mai visto né ascoltato i Bad Plus e neppure i Jason Moran o Robert Glasper. Sono trascorse poche settimane dalla pubblicazione di ‘After Bach’ che il nostro ritorna alla sua forma più amata, quella del trio, accompagnato da Larry Grenadier al basso e Jeff Ballard alla batteria. Questa formazione oggi non ha rivali, avendo il Keith Jarrett Trio gettato la spugna e si avvicina sempre più ai trii migliori di Bill Evans. L’apertura è affidata a ‘Spiral’, un brano molto fluido in cui il nostro dà libero sfogo all’improvvisazione, seguendo però una melodia ben precisa. La traccia omonima ‘Seymour Reads The Constitution’ è molto riflessiva, con la sezione ritmica in bell’evidenza (ottimo il lavoro di Ballard alle spazzole), ma il tutto è superato dalla grande performance pianistica precisa e pulita di Brad. È il turno di una composizione di Frederick Loewe dal titolo ’Almost Like Being In Love’ che è nota ai più nella versione di Nat King Cole, il pianista la personalizza con una parte molto improvvisata e decisamente ritmata. Le sorprese maggiori derivano da due covers i cui autori sono Brian Wilson e Paul McCartney, del primo viene rivista ‘Friends’, l’interpretazione mette in mostra il piano che ricama la melodia in modo da valorizzarla al massimo. Del baronetto viene ripresa ‘Great Day’ del 1997 tratta dall’album ‘Flaming Pie’. Qui si assiste ad un deciso miglioramento del pezzo grazie ad un uso del piano che rende la canzone più bella e luminosa.
Se il piano trio è la vostra cup of tea, non lasciatevelo sfuggire, siamo ai massimi livelli per questo tipo di formazione.


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