ANE BRUN: “After The Great Storm” cover albumPiù di tre anni di silenzio per Brun, scelta che ha fatto seguito alla morte del padre avvenuta nel 2016. Una lontananza dalle scene che la cantautrice norvegese (vero cognome Brunvoll) rompe pubblicando ben due album, registrati in sole tre settimane in una solitaria e isolata capanna delle montagne della terra natia.

Sono passati diciassette anni da quando Ane Brun ha consegnato il suo album di debutto acclamato dalla critica “Spending Time with Morgan”. Nella sua ultima uscita, “After the Great Storm”, l’artista norvegese con sede a Stoccolma, mostra ancora una singolare abilità nel dipingere parole che saltano fuori dalla pagina di un foglio di testo. Per sette album in studio, quella voce sbalorditiva, incandescente e ardentemente cruda nella sua onestà emotiva, ha avvolto il suo suono argenteo attorno a trame folk, pop da camera ed elettroniche. Lo scorso autunno, Ane è tornata con non uno, ma due album di nuovo materiale originale e alcune delle migliori canzoni della sua prolifica carriera.

Scritto durante l’estate del 2019 in una capanna sperduta nel profondo delle montagne norvegesi, “After the Great Storm” è nato dall’angoscia e dall’inerzia creativa che l’hanno ostacolata per alcuni anni, mentre Brun si è fermata per un momento per piangere la morte di suo padre. L’irresolutezza e il disagio che pervadono questi nove brani rispecchiano perfettamente l’ansia e l’isolamento sociale che hanno travolto questa era post-pandemia.

L’album prende il via con “Honey”, una lettera d’amore piena di sentimento all’adolescenza e un viaggio trip-hop celebrativo nella memoria. Ispirata da una cassetta di musica portata alla luce durante l’adolescenza, la canzone vede Brun riconnettersi con l’audace ottimismo di sé stessa. Ma la gioia e l’innocenza iniziali lasciano presto il posto all’oscurità che pervade il lavoro nel suo svolgimento. Nella fumante title track, canalizza il downtempo degli anni ’90 e Sainkho Namtchylak nella sua forma più eterea, mentre la voce cadenzata fluttua alta sopra ritmi densi e nodosi. Il suo ultimo singolo “Crumbs” non prende mai il volo, anche se abbraccia un delizioso doo-wop per l’atmosfera del 21 ° secolo. Insieme alle voci di sottofondo di Jennie Abrahamson e Linnea Olsson, questo è un incontro tra Julee Cruise con le Ronettes, che mi sembra possa descrivere perfettamente la sensazione claustrofobica di essere intrappolati in una relazione senza uscita e co-dipendente.

Il disco è colmo di momenti importanti come l’entusiasta “Take Hold of Me”, l’angosciato ma speranzoso “We Need a Mother” e l’inno ambientale inquietante “Feeling Like I Wanna Cry”, con il suo uso di percussioni e visual sontuosi. Ogni fotogramma di questo sorprendente video è pieno di fiori mozzafiato che appassiscono e sbocciano. Un’elegante meditazione sulla morte, “Fingerprints” è uno dei brani più belli dell’anno, al pari dell’altrettanto ipnotica “Island of Doom” della cantautrice danese Agnes Obel. In sette minuti meravigliosi, Brun imbottiglia il suo dolore per noi mentre canta ‘Mi manchi’ più e più volte come un mantra, riflettendo su quella perdita. Come un’eco del passato ci ricorda che coloro che si sono allontanati da questa vita indugiano a lungo dopo aver attraversato l’ultima porta.

Un disco emozionante ed intenso che ci riporta all’attenzione una autrice brava a dipingere atmosfere intime ed evocative, in cui spicca una vocalità pulita ed espressiva, ma in grado di farci vibrare grazie alle doti interpretative!!!


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