Questo è il terzo lavoro degli Amen Dunes pubblicato dalla Sacred Bones Records ed esce a distanza di quattro anni dal precedente ed acclamato “Love”.
Gli Amen Dunes sono in realtà il progetto solista di Damon McMahon chitarrista newyorchese ed un progetto che mi ha affascinato fin dall’inizio, dal lontano 2009 quando il nostro pubblicò “DIA” su Locust.
È la psichedelia a farla da padrone con chitarre distorte, suoni grezzi che riportano alla nostra mente gli anni ’60. Nel corso degli anni il suono si è raffinato ed è diventato meno ruvido e caotico e maggiormente onirico.
La caratteristica che balza alle orecchie ad un primo ascolto del nuovo disco è la pulizia della voce, non è più coperta da riverberi ed effetti come accadeva nell’album precedente.
Dopo aver arruolato un consistente gruppo di collaboratori che include Parker Kindred (Antony & The Johnsons, Jeff Buckley) alla batteria, Chris Coady (Beach House) come produttore e Delicate Steve alle chitarre, “Freedom” è stato registrato al leggendario Electric Lady Studios di New York e al non meno celebrato Sunset Sound a L.A.
Sembra voler passare in rassegna la tradizione cantautorale, ma attraverso una lente che ce la fa apparire come mai ascoltata prima.
“Freedom” e “Believe” rasentano il gospel anche se stradaiolo e proiettato al futuro, mentre “Calling Paul the suffering” ha come modello di riferimento lo Springsteen di metà ’80.
Il brano conclusivo, “L.A.” sembra una sorta di funk-grime ed apre nuove soluzioni per il futuro.
A livello di liriche ci sono riflessioni sulla crescita, sugli amici d’infanzia finiti in prigione o anche peggio e sulle figure materna e paterna del nostro.
Non è un lavoro di ascolto immediato, c’è bisogno di prestargli attenzione per esserne conquistati.


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