Marsalis è un personaggio che non ho mai sopportato, pieno di sè, sempre pronto alla critica nei confronti degli altri, molto saccente e depositario del vero verbo del jazz.
Wynton è il secondogenito di sei fratelli, tutti impegnati a vario titoli nel mondo musicale. Il più famoso è Brandon, il primogenito, che assieme a Wynton, fece parte della penultima incarnazione dei Jazz Messengers di Art Blakey.
Il nostro cominciò in tenera età ad avere interesse per la musica quando gli fu regalata una tromba, anche se, all’inizio, preferiva ascoltare piuttosto che suonare.
Le sue passioni risiedevano nel soul e nel R’n’B e adorava James Brown, Marvin Gaye e Stevie Wonder. Si accostò successivamente alla musica classica e solo alla fine del suo percorso di ricerca intraprese la strada del jazz.
Non appena firmò per la Columbia nel 1982 divenne il personaggio che oggi conosciamo. La scelta iniziale fu quella di suonare jazz acustico in contrapposizione a quella che riteneva una degenerazione della tradizione musicale.
Le sue interviste erano improntate sul fatto che il free e il jazz elettrico fossero eresie. Il rock ed il pop erano “volgari”, rinnegando così i suoi idoli di gioventù.
Si scagliò perfino contro Miles Davis affermando che la svolta elettrica fosse dovuta a scopo di lucro. Ricevette, a sua volta, molte critiche e fu accusato di suonare un jazz cerebrale, privo di pathos e cuore.
Marsalis è il direttore e supervisore della struttura nota come “Jazz at Lincoln Center”.
La lunga introduzione per farvi capire chi realmente sia Wynton Marsalis: la classica persona che sputa nel piatto in cui mangia.
È di poche settimane fa l’uscita del suo nuovo disco in settetto a cui si aggiungono degli “amici”. Chi sono questi “amici”? Musicisti che fanno parte del mondo pop rock, quello che lui giudica volgare.
Si tratta di un disco con molti ospiti che sono stati registrati in un lasso di tempo compreso tra il 2003 ed il 2007, che si sono succeduti sul palco in occasione dei gala benefici organizzati per raccogliere fondi.
L’album si apre con i Blind Boys of Alabama che interpretano un gospel a firma Wycliffe Gordon “The last time” con le voci in primo piano e il settetto che agisce da spalla. Grande inizio!!!
È, poi, il turno di Bob Dylan con “It takes a lot to laugh it takes a train to cry”. Bob canta e suona l’armonica. Il brano dà i brividi grazie ad una stupenda interpretazione vocale a cui la base flatistica fa da contrappunto donando una versione originale.
Anche il grande Ray Charles fa un figurone grazie alla versione di “I’m gonna move to the outskirts of town”. Canta e suona il piano con la classe che lo ha sempre contraddistinto spargendo forti emozioni e, intorno, è tutto un tripudio di sax, trombe e tromboni.
La prima sorpresa ce la dona Eric Clapton rifacendo una traccia di Louis Armstrong, “I’m not rough”. Il chitarrista si esibisce in un assolo da urlo a cui il settetto dona quel quid in più.
“Milk cow blues” ci permette di risentire Willie Nelson accanto al jazzista di New Orleans e la versione proposta è di altissimo livello.
È della partita anche Lyle Lovett con “My baby don’t tolerate” in cui il texano dimostra di trovarsi a proprio agio con il jazz, come già sapevamo grazie alle esibizioni della Large Band.
Altri gli ospiti interessanti quali James Taylor, Natalie Merchant, Jimmy Buffett e Susan Tedeschi con Derek Trucks.
L’opera si chiude con un brano scritto da Wynton dal titolo “What have you done?” che lo interpreta con il proprio gruppo cimentandosi anche al canto.
Il disco, musicalmente, è veramente godibile e splendidamente suonato, ma, per tutto quello di cui vi ho reso partecipi sopra, non lo consiglio a nessuno. Nella vita ci vuole un po’ di coerenza.


Category
Tags

No responses yet

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *