Il percorso musicale dei Pink Floyd si estende per un quarantennio, ma in questa sede intendo gettare uno sguardo solo sui primissimi anni della loro produzione, diciamo fino al 1971. La miscela che ha caratterizzato la prima parte della loro produzione è composta di elementi psichedelici e sperimentali che avevano un umorismo di base andato perduto con la dipartita artistica di Syd Barrett dai Pink Floyd. Come se il folletto che ha popolato ‘The piper at the gates of dawn’ e ‘A saucerful of secrets’ se ne fosse tornato nel suo bosco incantato. Parlo dei Floyd ante Alan Parsons, che fa la sua prima e poco nota apparizione in Atom heart mother, parlo dei Floyd prodotti da Norman Smith, che contemporaneamente lavorava coi Beatles, parlo dei Floyd della canzonetta e del megalito, di ‘The Gnome’ accanto a ‘Interstellar Overdrive’.
Insomma, dei Pink Floyd che piacciono tanto a me, quelli il cui concerto aveva una dimensione rituale in cui il gruppo si perdeva nella selva dell’improvvisazione lisergica e il pubblico silasciava andare in una sorta di “rave onirico”. L’elemento sciamanico del gruppo era Syd Barrett, e quando Gilmour lo sostituì definitivamente andarono perse poco a poco la dimensione magica del gruppo e la sperimentazione a livello compositivo.
‘Ummagumma’ (1969) è l’ultimo atto creato dallo spirito avanguardistico dei Floyd, i successivi album volgono verso estetiche più vicine al classicismo. Il live del primo disco di ‘Ummagumma’ restituisce l’atmosfera magico-ipnotica che si creava nei loro concerti di quel periodo. La dimensione narrativa di ‘Astronomy Domine’ è affidata alle strutture melodiche che proiettano l’ascoltatore nello spazio cosmico, mentre il testo, divenuto famoso per il reiterato gioco di assonane e consonanze, accenna appena alle avventure di Dan Dare, Il Pilota del Futuro, l’eroe dei fumetti inglesi più amato negli anni ’50 le cui vicende erano ambientate alla metà dei ’90. ‘Careful With That Axe, Eugene’, il secondo brano, ha l’architettura sonora della tragedia greca: graduale creazione di un’atmosfera claustrofobica, raggiungimento della crisi e scioglimento, che si concretizza nello sfumare della melodia che si fa più fluida. ‘Set The Controls For The Heart Of The Sun’ è una sorta di mantra oscuro che riflette il rapporto di interdipendenza tra luce ed ombra nel processo vitale, ma che lascia l’uomo in una posizione di subalternità, un po’ come la natura matrigna del Leopardi che provvede a se stessa ma si mantiene estranea alle umane sorti… Infine ‘A Saucerful Of Secrets’ una delle vette compositive del gruppo, una sinergia interstumentale che porta dal caos all’armonia, il tutto sorretto da un’imponente impalcatura invisibile ma individuabile ad un accurato ascolto. La casualità non concerne i Pink Floyd e il caos nemmeno; seppur nascosto, è l’ordine che domina.
Il secondo disco è formato da quattro parti composte singolarmente da ognuno di loro, parti in cui vengono espresse le tendenze individuali, anche in modo esasperato. Come una sorta di canovaccio, di un non-finito a cui attingere per una futura creazione. Wright in ‘Sysyphus’ prende in rassegna vari stili di composizioni pianistiche, passa da un’imponenza tipica wagneriana alla lievità di una sonata romantica, dallo sperimentalismo tipico nel ‘900 alla più rarefatta e meno materica musica per immagini. In ‘Grandchester Meadows’ Waters preannuncia lo stile che impregnerà album come the ‘The Wall’ e ‘The Final Cut’, e nella seconda composizione dall’impossibile titolo ‘Several Species Of Small Furry Animals Gathered Together In a Cave And Grooving With a Pict’ si diletta con un’infinità di sovraincisioni di versi manipolati, riuscendo a mettere in sonoro una sorta sinfonia di voci elettroniche di animali virtuali, interrotta da un monologo pronunciato da Waters in un idioma dialettale scozzese che risuona come l’incantesimo di un mago che tutto mette a tacere. ‘The Narrow Way’ di Gilmour è divisa in tre parti ed è una sorta di campionario di modi d’uso della chitarra, mentre la parte cantata riflette a pieno lo stile della classica ballata che ritroveremo lungo tutta la produzione del chitarrista. Mason è senza dubbio il più psichedelico dei Floyd post Barrett e la sua ‘The Grand Vizier’s Garden Party’, totalmente strumentale, è pregna di allucinazioni tribali e fiati campestri… Così termina il disco, lasciando l’ascoltatore sospeso, in attesa del seguito che non arriverà.
Consiglio la visione di ‘Live at Pompeii’, documento che restituisce i migliori Pink Floyd dell’epoca (performance live del luglio 1971), e per me in assoluto. Enjoy!!!
By Sylvia
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