Terence Blanchard è un eccellente trombettista e compositore che si è spesso cimentato con le colonne sonore, in particolare modo per i film diretti da Spike Lee.
Fin da bambino si ritrovò in un ambiente legato alla musica. Il padre, infatti, si dilettava con un gruppo vocale che si esibiva alle feste. Anche il luogo di provenienza, New Orleans, ha sicuramente posto basi solide per la sua formazione musicale.
Ricevette in dono, durante la frequentazione della scuola elementare, un pianoforte grazie al quale fu spinto ad impegnarsi con profitto nello studio della musica. La tromba divenne il suo strumento a partire dai quattordici anni, probabilmente influenzato dall’ascolto di “Study in Brown” di Clifford Brown e Max Roach, come da “Four & more” di Miles Davis.
L’avvento sulla scena jazzistica avvenne all’inizio degli anni ’80 nella Big Band di Lionel Hampton con la quale rimase fino al 1982.
In seguito, assieme a Donald Harrison, fece il suo ingresso nei Jazz Messengers di Art Blakey per sostituire i fratelli Marsalis.
Tante furono le collaborazioni in quel decennio, fra le quali mi piace ricordare quelle con J. J. Johnson, Chick Corea e Toots Thielemans. Negli anni ’90 cominciò ad interessarsi alla composizione per colonne sonore. Ha sempre inciso per la Columbia fino al 2003 anno in cui firmò per la prestigiosa Blue Note.
Dopo l’uragano Katrina si impegnò anima e corpo affinchè la città di New Orleans potesse risorgere dalle proprie ceneri. Diverse le iniziative per rilanciare la sua città natale. La più importante è stato il progetto “Commitment to New Orleans” che era improntato a riportare il campus universitario di impronta jazzistica della Loyola University da Los Angeles alla Big Easy.
Fino ad ora abbiamo sempre citato il termine jazz per qualificare la musica di Terence. In realtà più appropriato sarebbe parlare di BAM (black american music), perché il nostro non disdegna di sporcarsi le mani con tutto ciò che riguarda la musica nera, quindi dal jazz al soul, dal funk all’hip-hop.
Il suo nuovo album dal titolo”Live” lo vede accompagnato dagli E-Collective, un combo che non si fa scrupoli a passare da forme acustiche a quelle elettriche. Ne fanno parte Charles Altura alle chitarre, Fabian Almazan alle tastiere, David DJ Ginyard al basso e Oscar Seaton alla batteria.
Si tratta di un disco dalla forte connotazione sociale in cui si vuole mettere in risalto la condizione di discriminazione e violenza verso gli afro-americani.
Il lavoro è inaugurato da “Hannibal”, brano scritto da Marcus Miller e presente in “Amandla” di Miles Davis. La versione si snoda lungo undici minuti, con un’introduzione parlata ad opera del filosofo Cornel West a cui fa seguito una performance alla tromba di Blanchard che, attraverso l’uso del delay, rende il brano ancor più drammatico dell’originale.
Il gruppo suona omogeneo e compatto e Terence trova in Altura e Almazan due perfetti contraltari al suo strumento.
Il piano è protagonista nella chiusura del primo pezzo che sfocia senza soluzione di continuità nel brano successivo, “Kaos”, che da un’immagine confusa e difficile dei tempi in cui stiamo vivendo.
“Soldiers” è una composizione ricca di suoni che variano in continuazione come uscissero da uno scrigno magico.
“Dear Jimi” è un sentito omaggio al mancino di Seattle in una dimensione di suono colorata, ma pure estremamente controllata.
“Can anybody hear me?”, dopo un inizio elegiaco, si trasforma in un funk-bop con la tromba (ancora con il delay), le tastiere e la sezione ritmica che volano imprendibili.
La chiusura è affidata a “Choices” in cui la band si lascia andare in una prestazione toccante e ricca di sentimento.
Un album che è espressione della realtà che ci circonda, ma che vuole trovare soluzioni per poter vivere in un mondo migliore.


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