Vi ho spesso parlato di “Beautiful losers” in passato quando vi ho raccontato le gesta di musicisti quali Garland Jeffreys, Elliott Murphy e, più recentemente, Graham Parker. Personaggi che hanno più offerto che raccolto in relazione al loro talento.
Alzi la mano chi conosce Lee Fardon, credo pochissimi e tutti di età almeno pari alla mia. Me ne ero dimenticato anch’io, eppure nel 1982, anno dell’uscita di “The God given right”, mi ero dannato non poco per poterlo stringere tra le dita delle mani.
La sua storia è simile a quella di tanti altri musicisti di talento, ma che, per un motivo o l’altro, non riescono a raggiungere quello che si erano prefissati.
Il nostro nasce nel 1953 a Battersea, sud di Londra, e, fin da bambino, si diletta con la chitarra. La dimensione preferita sarebbe quella del cantautore, ma quello che passa il convento è fare il bassista in diverse formazioni del sottobosco londinese legate al classic-rock.
Nel 1977 decide di compiere il grande passo, prepara una cassetta demo e la spedisce all’Arista che, come altre etichette all’epoca, è in costante ricerca di nuove sensazioni punk-wave.
Il tentativo va a buon fine e Lee viene messo sotto contratto assieme alla sua backing band i The Legionaries.
Il tempo sembra volgere al bello, vengono pubblicati un singolo ed un EP. I Dire Straits lo vogliono come supporto per un tour e poi registra anche il suo primo album “Stories of adventure” pronto per essere pubblicato. Colpo di scena, l’Arista decide di scaricarlo e i The Legionaries si sciolgono.
La situazione lascia Fardon attonito e disilluso a tal punto da indirizzarsi verso la bottiglia che diviene sua compagna fedele per lungo tempo.
A volte esistono gli angeli custodi, nella fattispecie nella veste della Aura Records che gli pubblica l’album nel 1981 e, pur senza grandi riscontri di vendita, gli permette di dare alle stampe pure il seguito dal titolo “The God given right” l’anno successivo.
I riscontri, questa volta, sono positivi. Ha alle spalle una band solida e compatta composta da Jim Hall alla chitarra, suo fratello Colin al basso, Jan Schelhaas alle tastiere e Chris Brown alla batteria.
Il disco riascoltato oggi non mi sembra abbia perso nulla della propria magnificenza, ma non sono sicuro se sia proprio così oppure sia il ricordo dei miei vent’anni.
Lee ha una voce matura e sicura, ma sempre tendente ad una malinconia di fondo che non lo abbandona mai.
I punti di riferimento per la scrittura, di un livello superiore alla media, mi sembrano Van Morrison (nella traccia omonima e in “When she rains”), Elliott Murphy (“Together in heat”, “Dreaming still”) e lo Springsteen oscuro ed epico di “The darkness on the edge of town” (“Like an automatic”, “I remember you”).
Ci sono passaggi e sfumature che danno una certa modernità wave al suono come in “Show me (like this again).
Non c’è una canzone da buttare!!! Purtroppo il futuro riserverà solo dispiaceri a Fardon, d’altronde solo sei dischi in oltre trent’anni di carriera sono li a dimostrarlo.
Questi sono gli ascolti che qualificano un appassionato, che ricerca sempre nel sottobosco per trovare perle che saranno parte della sua collezione e di quella di pochi altri.


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