TAMIKREST- “Tamotait”“Tamotait” è il nuovo album dei Tamikrest, a tre anni di distanza da “Kidal”. «Il significato del disco è nel suo titolo – racconta il cantante e chitarrista Ousmane Ag Mossa – cioè speranza per un cambiamento positivo», mentre nella nota stampa l’opera viene descritta come «un atto di resistenza contro la difficile vita delle terre del Sahara. Rappresenta quello che il rock’ n’ roll può essere, che la musica può essere. Musica come arma di speranza, canzoni come veicolo per arrivare alla verità». Il lavoro, che vede inoltre la presenza della celebre cantante e attrice marocchina Hindi Zahra, è anticipato dal brano “Timtarin”, in cui la Zahra, con un’ugola incantatrice, ricama il progressivo incedere del brano.
Anche per loro, come per i Tinariwen, fu coniato il termine desert-rock per descrivere la musica di cui erano portatori. Sono ormai quindici anni che lo cavalcano e dopo cinque dischi in studio e una miriade di concerti sostenuti in giro per il mondo, ancora non hanno ammainato la bandiera e la vitalità sembra sempre quella degli esordi. Quale è il motivo? La maggior parte di noi occidentali non ha idea di cosa significhi vivere in esilio, lontano da casa, lontano dagli affetti. Ma c’è chi, invece, conosce fin troppo bene questa condizione. I Tamikrest ne sono un esempio: costretti a lasciare il proprio paese per via della Sharia, la legge sacra islamica che regola la vita anche nella loro terra, oggi vivono in una nazione straniera, l’Algeria. Proprio questa incertezza socio-politica religiosa da loro forza e creatività, è una forma di sopravvivenza e di conservazione delle proprie radici.
Il dolore è stato affidato alla malinconia delle note blues e la speranza nel futuro alla psichedelia degli arrangiamenti. Il canto del “popolo blu” sgorga da tutta la discografia dei Tamikrest e accompagna noi, ascoltatori inconsapevoli, alla scoperta di quella terra e della sua storia.
La sostanza non cambia neanche nell’ultimo “Tamotaït”, questo quinto disco non si discosta dalle sonorità a cui il gruppo ci aveva abituato nelle opere precedenti: il rock’n’blues si mescola con la musica etnica, dando vita a un connubio psichedelico in cui le chitarre sono le protagoniste assolute. C’è un però, che risiede nel tour in Giappone, che ha convinto Ag Mossa ad immergersi nella cultura locale e il risultato è il brano “Tabsit”. È un pezzo in cui si dimostra come sia possibile far convivere il shamisen (strumento musicale giapponese a tre corde, della famiglia dei liuti) e il tonkori (strumento musicale a corde tipico del popolo degli Ainu dell’isola di Hokkaidō) di Atsushi Sakta e Oki Kano con i tratti melodici della tradizione Kel Tamasheq (lingua dei Tuareg).
Ci sono echi di Stones, come nella traccia d’apertura, ”Awnafin” e nella penultima “Anha Achal Wad Namda”, anche se sono le atmosfere meditative, ma cariche di pathos, a dominare il disco (“Amzagh”, “Timtarim” e “Tihoussay”). È un po’ assente quel suono continuo ed oscillante del passato, rintracciabile, con velocità differenti, in “Azawad” e nelle già citate “Awnafin” e “Tihoussay”.
Niente di nuovo sotto il sole, a parte piccoli accorgimenti, ma non è importante perché questa è musica che nasce da un’urgenza, è musica di libertà e speranza nel futuro, e ne abbiamo bisogno anche noi!!!


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