SUEDE – ‘Autofiction’ cover albumGli Suede erano sia prototipi che valori anomali del pacchetto Britpop e la loro riunificazione del 2010 ha gestito un secondo atto raro e creativamente sostanziale; data la loro resurrezione dopo l’uscita litigiosa del chitarrista Bernard Butler nel 1994, questo potrebbe anche essere il terzo atto epico e aperto della formazione.

Laddove i loro primi tre dischi di reunion hanno ripristinato il senso dell’arte concettuale di Suede, “Autofiction” riporta il pop, il glamour e l’effervescenza dei loro primi singoli e dei loro concerti febbrili. Piuttosto che ricostruire quel passato, guarda al post-punk per il suo atteggiamento e il suo suono, immaginando un gruppo nato nel monocromatico duro 1979, non nell’edonismo e nell’ambizione dei New Labour degli anni Novanta.

Un crepitio di amplificatori per chitarra collegati e strappati apre e chiude il lavoro, come se fosse tutta una performance. “She Still Leads Me On” rende grato omaggio alla defunta madre di Brett Anderson, in precedenza oggetto dell’adorabile e desolata “The Next Life”, qui il cuore di un inno emergente, simile a Psychedelic Furs. Anderson, 54 anni, si dichiara ‘in molti, molti modi ancora un ragazzino’ che ‘la amerà, fino all’ultimo respiro’. “The Only Way I Can Love You” è altrettanto assoluto (‘Prenderei una pallottola per te’), poiché il cantante infonde nella vita del suo padre di famiglia di mezza età, sposato, un dramma e un desiderio inebrianti.

“15 Again” amplifica l’intensità ricordata della vita adolescenziale ai margini della città di pendolari nel Sussex di Haywards Heath, con Anderson che lancia la sua voce alle enormi chitarre di Richard Oakes. Il bagliore acido dell’abrasione post-punk definisce il contributo di Oakes, rifacendosi a John McGeoch di Magazine e Robert Quine di Voidoids. Il basso di Matt Osman nel frattempo fa riferimento a Peter Hook nella chiusura “Turn Off Your Brain and Yell”, mentre i lavaggi della tastiera di Neil Codling trovano la distesa alla Pink Floyd in “What Am I Without You”. A volte i riferimenti distraggono, il punto è il potere, che fornisce un motore martellante e potente per i sentimenti di Brett.

Un’improvvisa deviazione in una ballata tipicamente cinematografica dei nostri, “Drive Myself Home” è un gradito contrasto, mentre il pianoforte di Codling risuona minacciosamente e i banchi di archi si avvicinano. La sua malinconica grandezza orchestrale ricorda l’ambizione a volteggio che li ha sempre distinti, incarnata dalla voce impavidamente emotiva del Leader. In un altro tributo ai ribelli di provincia, “It’s Always the Quiet Ones”, la sua voce balza come l’Amleto a scala di torretta di Olivier, vigorosamente romantico nei suoi picchi in falsetto e nelle sue profondità rauche.

È rincuorante ascoltarli raggiungere un rock così ritmicamente diretto, in primo luogo che purifica il palato, raro ora in un genere eccessivamente maturo e fragile introspettivo. Eppure, nonostante tutte le loro intenzioni univoche, luci e ombre persistenti colpiscono più duramente dell’insistenza del delinquente!!!


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