Purtroppo non sono più i tempi in cui era possibile avere aspettative per l’uscita di nuovi dischi di autori che piacevano. Oggi passa tutto inosservato. Forse in momenti migliori la pubblicazione di un nuovo album di Steve Gunn avrebbe suscitato ben altro clamore. La rivista musicale inglese Mojo ha definito il nostro “…un grandioso cantautore americano”. Il tono enfatico non mi si addice, ma posso affermare che Steve è stato uno di quei musicisti che in questo decennio mi ha sicuramente colpito. Sono chiari i suoi riferimenti al passato, non è mai voluto sembrare ciò che non gli interessa essere, ma semplicemente voleva scrivere belle canzoni accompagnate da un’elettricità chitarristica contagiosa.
“The Unseen in between” è il quindicesimo lavoro di Gunn, a tre anni dall’ultimo “Eyes on the Lines”. Prodotto da James Elkington, l’opera vede i contributi del direttore musicale di Bob Dylan, Tony Garnier (basso), Meg Baird (cori) e molti altri.
Il suo percorso nasce dalla ricerca delle sperimentazioni di John Fahey e Robbie Basho, da studi approfonditi della filosofia orientale e dalla vicinanza e collaborazione con spiriti affini quali Kurt Vile, Michael Chapman e Mike Cooper. Solo ora possiamo dire che la sua strada sia giunta al termine e che la sua idea di canzone abbia toccato i punti più alti. Si tratta di un lavoro che non è mai stato così profondo, così legato ad esperienze personali. Il suono risulta compatto, le intuizioni strumentali perfette, siamo al cospetto di un’uscita che fa del folk-rock il proprio marchio di fabbrica, ma contaminato da una certa cosmicità.
L’impressione che ne ricavo è quella di un disco che sa sedurre ed ammaliare pur possedendo un’aura vintage che potrebbe far storcere il naso a coloro che sono sempre alla ricerca della “next big thing”. Sembra un lavoro ancora in grado di smuovere le coscienze come accadeva alla fine dei sessanta inizio settanta. Lasciatevi cullare dalla sonorità che escono dai solchi di “The unseen in between”, ne uscirete migliorati!!!


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