Ascoltando i RVG non è improbabile che vi sentiate trasportare musicalmente in un mondo passato, in un luogo che contempla i Go-Betweens, in situazioni in cui il folk-rock è innervato dal garage-rock, dalla psichedelia e dal minimalismo di casa Velvet. Ora se avete amato queste cose darete di matto per il gruppo, che, comunque, può essere apprezzato anche senza fare i riferimenti di cui sopra.

“Feral” è il secondo album in studio degli RVG, a distanza di tre anni dal debutto con “A Quality of Mercy” (2017). Registrato agli Head Gap Studio con il produttore Victor Van Vugt (PJ Harvey, Nick Cave & The Bad Seeds, Beth Orton). Essere feral (lett. “ferino”) vuol dire «essere fuori da tutto», spiega la frontwoman Romy. «”Feral” è una catarsi, una chiamata alle armi e un’accusa schietta al compiacimento contemporaneo – continua la nota stampa – In tutto questo album l’isolamento viene incitato, ma non sembra mai senza speranza: queste canzoni incanalano l’energia grezza della disperazione e della frustrazione in melodie che spesso sembrano vittoriose, forse solo perché forniscono una perfetta colonna sonora alla fine dei giorni».

Con questo secondo lavoro i RVG si riconfermano maestri nel combinare urgenza rock, anarchia punk ed empatia pop, regalandoci l’ennesima piccola gemma di Aussie revival anni Ottanta, stavolta per la londinese Fire Records.

Il disco è composto da dieci brani in cui la parte del leone è sostenuta dalla voce di Romy Vager capace, con la sua profondità, di delineare melodie immerse dentro limpidi riff jingle-jangle, ipnotici ritmi up-tempo e svisate di chitarra. Ci sono richiami continui come in “Alexandra”, che sa riportare in auge il ‘Paisley underground’ degli Ottanta, anche se, a sorpresa, il meglio del trio australiano esce però nelle cavalcate western rock, come la divertente” Christian Neurosurgeon” o l’irresistibile “Help Somebody”, con il suo crescendo emotivo, che strizza l’occhio ai War On Drugs come ad un’altra promettente realtà guitar-based di Melbourne, i Rolling Blackouts Coastal Fever.

A controbilanciare tutta questa energia troviamo poi un paio di ballate: buona la prima (“I Used To Love You”), decisamente meno la seconda (“Photograph”), che manca l’approdo emozionale portato invece a termine dalla splendida “That’s All” nel disco precedente, ma che sa esprimere una dolorosa invocazione.

Gruppo che conquista anche se sono derivativi, ma questo non costituisce un problema per la capacità di commuovere e graffiare allo stesso tempo!!!


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