RARE MONK: “Never Really Over” cover albumA volte il miglior spacciatore di musica è la musica stessa, capita di essere in un luogo ed essere investiti da qualcosa che ti lascia esterefatto, una semplice canzone di qualcuno oppure di un gruppo di cui nulla si conosce. E poi, quando approfondisci di più, trovi un album e un catalogo posteriore. La canzone era “Space Song”, la band erano i Rare Monk. Mi ha fatto fermare immediatamente e cercare di saperne di più – e scoprire questo album, il loro secondo, un disco meravigliosamente realizzato ma discreto che ti lava intorno, ti solleva dalla nebbia degli strani tempi che stiamo vivendo per i trentadue minuti delle nove canzoni e ti ricorda la magia della scoperta musicale.

È “Space Song” ad aprire il disco, distinguendosi a furia di vocalizzi bramosi di Dorian Aites che trasmettono il senso di disperazione impotente alla fine di una relazione che una parte non voleva far terminare – la linea chiave ‘I’ll never be over you’ cantata con una rassegnazione che funge anche da conforto per chi in quella posizione si trova, non è una situazione unica. L’assolo di chitarra di Hugh Jepson che arriva a metà della canzone cattura quella sensazione senza esagerare, attirandoti e immergendoti sotto l’esteso outro della traccia della ripetizione di quella linea chiave.

Ciò che colpisce è l’intelligenza emotiva riversata in questi brani – testi che ti catturano al terzo o quarto o decimo ascolto – e “Never Really Over” è un album che puoi ascoltare più e più volte e raccogliere qualcosa di nuovo ogni volta. Ci sono riferimenti a Kafka in “Furnace Glow”, una condanna misurata, ma schiacciante, del modo in cui i dati vengono utilizzati per giustificare qualsiasi argomento su “Statistic Vandals”, il tumulto emotivo di liberarsi dalla protezione di lunga data in “Goodbye” – ognuno costruisce un’immagine di un elemento le cose che influenzano ognuno di noi in un modo o nell’altro. Tuttavia, non è un album COVID, molto, se non tutto ciò che sembra, di questo album, è stato scritto prima che le cose cambiassero in peggio. Ma ci ricorda anche che le cose erano tutt’altro che perfette in quei tempi che vorremmo fossero ancora su di noi. Si tratta di un lavoro che ti lascia con un bagliore caldo, è una testimonianza delle capacità di composizione della band. Rare Monk mostra un controllo squisito sull’umore delle nove canzoni, sia con i loro strumenti che con l’uso più delizioso e ponderato delle armonie vocali per dare forza ed enfasi al momento giusto, nella misura corretta. Sebbene non abbia mai un ritmo unico, l’album non passa mai a marce più alte, ma non ne ha bisogno, anzi è meglio così, perché la magia è nei dettagli. È nei momenti in cui le chitarre in “Cuneiform” agiscono come un direttore d’orchestra per la voce, i ruoli si invertono sul ritornello ascendente di “Silverlake” o sul rombo di fondo che percorre la traccia finale “Arrows” fino all’esplosione minore degli ultimi novanta secondi.

“Never Really Over” ti fa sentire che puoi dare un senso alle cose se spogli via il rumore e che la musica non deve soffiarti via per essere potente. A volte la sottigliezza e un approccio meno è meglio possono dire, fare e ottenere molto di più dell’assolo più lungo o della linea più controversa. Potrebbe essere stata una scoperta casuale, ma a volte sono quelle situazioni che rimarranno per tutta la vita!!!


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