Marzo 1983, parto per militare. Prima di prendere il treno alle 17 sostengo un esame all’università e mi ascolto ‘Cabretta’ dei Mink DeVille (chissà quando avrei avuto l’occasione per ascoltare qualcosa in tempi brevi). Una volta giunto a destinazione ebbi la fortuna, tra i tanti personaggi senza arte né parte, di conoscere un ragazzo di Genova appassionato di musica. Aveva con sé un registratore con cuffie e diverse cassette da ascoltare. Mi chiese se mi piacesse la musica e dopo la mia risposta affermativa, mi domandò se conoscessi Peter Gabriel. Gabriel lo conoscevo bene come cantante dei Genesis, ma dopo l’ascolto del suo primo album solista lo avevo abbandonato e non mi ero più interessato alla sua musica. Sostenne che feci male, mi prestò il suo registratore e mi fece ascoltare il terzo album, uscito alla fine di maggio del 1980. Il disco si intitola ‘Peter Gabriel III’, oppure, nei paesi di lingua inglese, ‘Melt’ (sciogliersi) come il volto di Peter nella copertina ad opera di Storm Thorgerson. Una volta schiacciato il tasto play sono immerso in una serie di brani l’uno più interessante dell’altro. Al primo ascolto rimasi affascinato da due pezzi, ‘Games Without Frontiers’, il primo singolo, le cui liriche sono ispirate dai ‘Giochi Senza Frontiere’ televisivi e da ‘Biko’, scritta in onore dell’attivista politico sudafricano Stephen Biko che divenne un inno contro l’apartheid e fu bandito per lungo tempo dal Sud Africa. Della canzone mi colpì quel canto in lingua xhosa che dice ‘Yihla Moja’ (‘Discendi Spirito Santo’), mentre la parte iniziale riprende un coro funebre nella stessa lingua. Una volta terminati gli obblighi di leva, appena tornato a casa acquistai immediatamente il lavoro di Gabriel e lo studiai a fondo. C’è un tema che ricorre in tutto il disco, ed è quello della malattia mentale. ‘Peter Gabriel III’ è un album di grande interesse, a mio avviso il migliore dell’intera discografia, tanto che lo stesso Peter, durante gli spettacoli dal vivo, ricorre spesso alle sue canzoni. Il lavoro iniziò nell’estate del 1979 nello studio mobile di Bath, luogo in cui Gabriel viveva, e le sessions durarono circa sei mesi. Il disco era pronto per esser pubblicato nel gennaio del 1980, ma l’Atlantic, l’etichetta americana del nostro, rinvia l’uscita sostenendo che l’opera sarebbe stata un suicidio commerciale. È un lavoro di stacco con il suo passato, ci sono richiami alla new wave imperante e l’elettronica in primo piano. Ci sono altre caratteristiche di estrema novità, come il minimalismo alla Steve Reich e certe forme di world music che si definiranno meglio in futuro. Tutto è suonato con un set di batteria e percussioni senza piatti, e c’è ampio uso di tecnologia applicata al rock. in definitiva si tratta di un disco centrale per capire l’evoluzione della musica rock negli Anni Ottanta, e può contare sull’ausilio di grandi musicisti quali Tony Levin, David Rhodes, Robert Fripp, Jerry Marotta e sulla produzione di Steve Lillywhite, in quegli anni uno dei più importanti sulla piazza.

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