I Jethro Tull, scrissi una vita fa, sono uno dei gruppi più longevi del rock e il loro corpus musicale è secondo solo a quello dei Rolling Stones. Sono conosciutissimi al di là del fatto che li si apprezzino o meno, girano ancora il mondo in tour e sono, in prospettiva storica, uno dei gruppi rock più importanti. E’ possibile che la discografia di un gruppo così sotto i riflettori abbia delle zone d’ombra? E’ possibile che qualcosa sia sfuggito? E’ possibile che ci siano capolavori misconosciuti? Se chiediamo agli appassionati di progressive, o solo di musica, di consigliarci un disco dei Jethro Tull che prescinda dalla celeberrima trimurti ‘Stand Up’/’Aqualung’/’Thick as a Brick’ (i più progressive-stile), me compreso, caldeggeranno il discusso, ma a mio parere indiscutibile, ‘A Passion Play’. Molti, quelli legati al rock-roots e gli appassionati di progressive con il senso di colpa e di inferiorità, punteranno su ‘Benefit’ e, perché no, su ‘This Was’, altri si sperticheranno di lodi per ‘Songs from the Wood’. Nessuno vi consiglierà ‘Minstrel in the Gallery. Caso strano, perché di capolavoro si tratta. Mi sbilancio, l’ultimo capolavoro dei Jethro Tull, ben superiore a tutto ciò che seguirà, e degno di stare al fianco di ‘Stand Up’,’ Thick as a Brick’, ‘Aqualung’ e ‘A Passion Play’ nel novero dei dischi imperdibili del gruppo. Ma perché?
Possono esserci molti motivi.
Innanzi tutto ‘Minstrel in the Gallery’ è pubblicato nel 1975 e dai tempi di ‘A Passion Play’ (1973) i Tull si sono alienati le simpatie della critica, che trovò ‘A Passion…’ troppo involuto e faticoso , troppo ambizioso e velleitario. Il miglior disco dei Tull per alcuni, compreso chi scrive, una degenerazione per altri, un emblema dell’abominio progressivo.
Poi il disco in sé: ‘Minstrel…’ è un disco molto raffinato ma manca, a parte il riff della title track, di pezzi di impatto immediato, anthemici, highligts da concerto con il pubblico a cantare in piedi. Appunto i concerti. ‘Minstrel in the Gallery’, a parte sempre la title track, è un disco che nei concerti, almeno per quel che ne so, è stato sempre un po’ dimenticato, tralasciato e questo non ha favorito la sua diffusione e il suo apprezzamento.
E poi siamo nel 1975. Si alza un refolo di vento, tra un po’ sarà tempesta ma nessuno ancora lo sa.
I Genesis si stanno organizzando per il post-Gabriel, gli Yes sono in pausa, i King Crimson sepolti, gli Emerson Lake and Palmer stanno contando i soldi, I Gentle Giant in rapido declino, la scena di Canterbury si sta spegnendo. Escono solo i Pink Floyd (‘Wish You Were Here’) e i VDGG (‘Godbluff’). Si comincia a respirare un aria da caduta dell’ Impero d’Occidente. Da qualche parte nel mondo cominciano a fare le prove generali i Talking heads, i Television, i Residents, i Pere Ubu. E laggiù, nel regno di Mordor, in una cantina fetida e buia, un sorriso dai denti marci con una maglietta con scritto ‘Odio i Pink Floyd’ sta cercando di infilarsi un mollettone nel naso ripetendo, come un mantra, ‘Perché dobbiamo fare canzoni con 28 accordi quando possiamo farle con 2?’.Già, perché? Perché dobbiamo fare la pipì nel water mentre possiamo farla sulla tavola con il servizio buono di mamma? Eppure questa sciocchezza laverà il cervello di generazioni di musicisti e di critici musicali per decenni, una peste i cui effetti deleteri sono ben visibili tuttora. Ma il tempo è, come diceva mio nonno, galantuomo. Nel 2004 una vecchia rock star ultracinquantenne, a fine carriera, afona, grassa e mezza pelata, nonché titolare di una azienda ittica girerà il mondo in tournée sold -out, nel mentre un tale Johnny Rotten partecipava all’’Isola dei Famosi’ inglese. Ma non divaghiamo.
E’ il 1975. Se ‘Minstrel in the Gallery’ fosse uscito solo due anni prima sarebbe ora considerato, come merita, uno dei migliori dischi dei Jethro Tull? Incastonato tra due dischi , ‘War Child’(1974) e ‘Too Old to Rock and Roll, Too Young to Die’ (1976), gradevoli ma alla fine un po’ deludenti, ‘Minstrel in the Gallery’ presenta, a mio parere, alcune peculiarità stilistiche. Innanzi tutto è forse l’ultimo disco dove la componente progressive è preponderante, più preponderante anche rispetto a ‘Songs from the Wood’. Con ‘Thick as a Brick’ e ‘A Passion Play’ chiude il trittico puramente progressivo del gruppo. Basti considerare gli arabeschi e le complessità negli arrangiamenti di cui l’album è disseminato. Poi la strumentazione. Come mai prima, c’è una centralità della chitarra acustica, che domina tutta la seconda facciata, e degli archi, con una conseguente sottoesposizione relativa del flauto. Tutti i brani sono, al solito attribuiti ad Anderson ma ho sempre avuto l’impressione da una parte di trovarmi di fronte ad un lavoro stilisticamente più di gruppo, dall’altra che sia l’album dei Tull dove l’ influenza, a prescindere dalla conduzione degli archi, di David Palmer, ancora all’epoca un membro esterno, sia più evidente. Sia come sia, riascoltando ‘Minstrel in the Gallery’ per l’ occasione datami di scrivere queste poche righe, non ho potuto, dopo tanti anni, meravigliarmi ed esaltarmi ancora per l’equilibrio delle voci strumentali, per l’ uso eccellente e per niente retorico degli archi, per la potenza degli incastri chitarristici di Barre in ‘Black Satin Dancer’, non ho potuto non rimanere toccato ancora una volta dalla dimensione lirica, rara nella scrittura di Anderson, di ‘Requiem’, non ho potuto non godere ancora della bellezza cristallina delle melodie di ‘One White Duck’ o di ‘Baker Street Muse’ Ma queste cose posso, in fondo, venirle a raccontare proprio a voi che le conoscete meglio di me?
By Doktor Kiusi
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