Anno 1976, quello che fu l’inizio del mio rapporto con la musica, vide anche l’uscita di un doppio LP dal vivo, “Frampton comes alive”, che fu un successo clamoroso, oltre dieci milioni di copie vendute. Al tempo quel disco era considerato poco o niente, troppo radiofonico ed americano per trovare consenso qui da noi, naturalmente mi accodai a tale presa di posizione, non avendo capacità e cultura per comprendere che non esisteva una solo forma di rock, quella che stavo ascoltando, ma tante e variegate proposte.
Se non lo sapete vi dirò che gli Small Faces sono uno dei miei gruppi preferiti dei sixties, adoravo in particolar modo Steve Marriott, cantante e chitarrista del gruppo. Quando abbandonò la formazione, fondò gli Humble Pie, band dedita ad un robusto e corposo hard-rock blues, e sapete chi figurava come chitarrista, proprio lui il biondo ricciolone, Peter Frampton. Sono trascorsi cinquant’anni dall’esordio degli Humble e il buon Peter decide di celebrarli a modo suo dando alle stampe un disco di blues, sempre commistionato con dosi di rock. I brani sono tutti standard presi dalla musica del diavolo, e il risultato è un rigoroso album di blues. Il lavoro è attribuito alla Peter Frampton Band composta da Adam Lester, chitarra e voce, Rob Arthur, tastiere, chitarra e voce e Dan Wojciechowski, batteria. Non mancano ospiti illustri e sorprendenti quali Kim Wilson, Sonny Landreth (i sorprendenti), Larry Carlton e Steve Morse (gli illustri).
Il disco parte con “I just want to make love to you”, brano che figurava sia tra le cose di Muddy Waters che tra quelle di Etta James, ma era un cavallo di battaglia anche in ambito rock-blues, basti pensare ai Foghat. La versione che esce dai solchi si situa a metà tra la classicità di Muddy, grazie all’ottima presenza di Kim Wilson all’armonica, e la crudezza del rock-blues grazie ad una sezione ritmica che stantuffa e alla vocalità di Frampton, che invecchiando si è arrocchita parecchio, che si inseriscono nel contesto del riff che la chitarra sa dipingere spaziando da tra un fine lavoro ad uno sicuramente maggiormente nerboruto. “She caught the Katy” vede il nostro impegnato in assoli e rilanci che mi fanno rimembrare il compianto Jeff Healey, ma pure certo rock sudista. Il grande pezzo di Willie Dixon “You can’t judge a book by the cover” fu scritto per Bo Diddley poi negli anni se ne sono impossessate band più vicine al rock (Cactus). Peter ne fornisce una interpretazione in cui unisce la ripetitività di Diddley con un sound maggiormente corposo in cui la slide la fa da padrone. Per gli amanti della doppia chitarra ascoltate il classico di Miles Davis “All blues” in cui il nostro si confronta con la sei corde di Larry Carlton in un duetto su chi riesca ad essere più raffinato, mentre il piano di Arthur ricama sullo sfondo.
Il finale è affidato a “Same old blues”, una ballata rivista in modalità Clapton con la chitarra liquida che è una libidine.
Non è un’opera di routine, c’è feeling e passione, ottimi arrangiamenti ed eccellenti parti strumentali, inaspettato e riuscito!!!


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