Cover album NEIL YOUNG- “Homegrown”Neil Young è il classico musicista che se non esistesse bisognerebbe inventarlo! Tutte le sue scelte artistiche sono sempre state improntate alla ricerca di qualcosa di personale, non importava se questo gli avrebbe causato problemi in termini di riscontro di pubblico. Anzi, a mio parere, a volte, l’uscita di certi album era dovuta al tentativo di allontanarsi dagli ascoltatori. Dopo “Harvest” avrebbe potuto pubblicare un lavoro simile, invece dette in pasto ai fans una serie di dischi, detti ‘Trilogia del dolore’, con cui si alienò parte dei favori della critica. Non è però l’unico aspetto che fa di Young un personaggio unico, la testardaggine è una sua caratteristica e fu la causa di veti disseminati qua e là che hanno costellato la sua lunga carriera, lasciando sedimentare negli archivi diversi tesori che ora, a poco a poco, ha deciso di portare allo scoperto. Dopo il caso di “Hitchhiker”, l’album inedito del 1976 uscito solo tre anni fa, tocca ora a “Homegrown” rimasto in un cassetto per quasi cinque decenni e ora definitivamente maturo per la pubblicazione.

A quest’ultima raccolta è mancato proprio il benestare del suo artefice, poco propenso a condividere col mondo quei pezzi per lui troppo personali. Così, il vecchio Neil ha deciso all’ultimo momento di sostituirlo con un altro disco realizzato qualche anno prima, ma ancora in attesa della sua occasione, ovvero “Tonight’s The Night”, un’altra delle tantissime pietre miliari di una discografia ricchissima e pure del tutto ingarbugliata. Quel periodo, a cavallo tra il 1974 e il 1975, per il cantautore di Winnipeg è stato infatti caratterizzato da un’incessante vena compositiva che l’ha portato in giro per gli Stati Uniti, da Nashville a Los Angeles, con “On The Beach” appena realizzato e già pronto per registrare tracce inedite, elaborare vecchi pezzi e perfino richiamare i nemici-amici Crosby, Stills e Nash per un nuovo tour insieme – quello poi confluito nel classico “CSNY 1974”. In questo marasma di idee e progetti, l’allora trentenne Neil aveva però qualche conto in sospeso con i propri tormenti personali. Queste dolenti riflessioni si manifestano nel disco, ma sono sicuramente lontane dalla lucida rovina di “Time Fades Away” o dei già citati “On The Beach” e “Tonight’s The Night”. Bloccato nel suo mondo fitto di oscurità, il musicista non riusciva a dare un senso compiuto a quel suono così apparentemente semplice e disilluso, nonostante le troppe brutture affrontate: la separazione da Carrie Snodgress, la malattia diagnosticata al figlioletto Zeke e la morte per droga degli amici, il chitarrista nonché membro dei Crazy Horse, Danny Whitten prima e quella del roadie Bruce Berry poi, lo avevano di fatto chiuso in un tunnel di negatività dal quale sarebbe uscito solo diverso tempo dopo e con parecchie ammaccature.

Ma, ora, finalmente vede la luce. E si tratta di un grande album, privo di quella elettricità nervosa del periodo, che offre un’ampia gamma delle proprie tristezze attraverso un’esposizione folk in cui ha sempre affondato la propria poetica. Tra acustica, armonica e steel, pianoforte e spazzole, le suggestioni bucoliche riempiono le atmosfere dell’album, alternando una moltitudine di umori contrastanti piuttosto lontani dagli ideali hippie evocati in “Harvest”. Registrato in parte insieme ai fedeli Crazy Horse e con le collaborazioni preziose di Levon Helm e Robbie Robertson della The Band, di Emmylou Harris alla voce, di Ben Keith alla steel guitar e Tim Drummond al basso. Quello che traspare in questi vecchi nastri è il ritratto di un musicista che mostra con sincerità la forma altalenante del suo stato d’animo, lontano da slabbrature, tensioni e strappi registrati altrove. In “Homegrown” anche quando si lascia andare alle negatività riesce tuttavia a mantenere una dolcezza di fondo ben distante dalla funerea mestizia che ha caratterizzato il periodo più duro del cantante.

Sono presenti dodici pezzi, alcuni noti perché usati in altri lavori, di cui qualcuno identico, qualcun’altro in versione differente, altri sono proprio delle novità. Uno dei momenti clou è rappresentato dall’iniziale “Separate ways”, ballata narrativa che racconta della separazione del nostro da Carrie Snodgress. È amara con la pedal steel e la batteria appena accennata a fare da base. Non è l’unico, ci sono anche “Try” spruzzata leggermente di country con Neil che canta come un crooner (nel senso di confidenziale) e la solita batteria di Levon Helm a ricamare con la consueta finezza. “Love is a rose” (contenuta identica in “Decade”) è un capolavoro minore, con l’armonica struggente in primo piano e una melodia dal fascino incantevole. “We don’t smoke it anymore” è influenzata dal blues: l’armonica la introduce creando la giusta atmosfera, la band entra piano come per prendere il giusto ritmo, si affianca il piano sino all’ingresso della chitarra, mentre la voce fa la sua comparsa dopo un paio di minuti, ma rimane come in secondo piano. Stralunata, ma accattivante. Non vado oltre nella descrizione per non togliervi il gusto della sorpresa.

Sono trascorsi 45 anni per poterlo ascoltare, ne è valsa la pena, sentire Young mettere in mostra i suoi lati nascosti, i suoi punti deboli, lui che al tempo era noto per il proprio genuino caratteraccio!!!


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