Mi manca! Eccome se mi manca!
Ancora ricordo quella fitta al cuore che mi colpì nell’apprendere nell’agosto 2009 della morte di Willy DeVille, un musicista ed un cantante dotato di un talento sublime, che solo la sua ingestibilità non gli ha permesso di raggiungere grandi risultati. Di lui ricordo il miglior ingresso e la miglior uscita dal palco che mi sia mai stata data di vedere. La classe démodée nel vestirsi, i suoi orecchini e il dente d’oro sono tutte caratteristiche che gli avrebbero dovuto dare la possibilità di recitare nei ‘Pirati dei Caraibi’. Nelle sue vene scorreva sangue irlandese, spagnolo e pellerossa, un mix esplosivo che lo rese insofferente alle regole e ribelle. Per lui la musica termina nel 1962, è già stato detto tutto, dal rock’n’roll al rhythm’n’blues, dal blues al soul, i più grandi sono tutti racchiusi entro quel periodo. Il primo disco che entrò nella mia collezione fu ‘Coup de Grâce’, uscito nel 1981, che fu forse il suo più grande successo e che lo portò ad una tournée che si concluse nel 1982 con i tre splendidi concerti all’Olympia di Parigi.
Ma è dell’album precedente ‘Le Chat Bleu’ che vi voglio parlare. È il terzo della sua discografia, quello che gli aliena definitivamente il mercato americano. I lungimiranti della Capitol, una volta ascoltata ‘Mazurka’ dissero che non avrebbero mai pubblicato un disco con un pezzo con la fisarmonica. Fu così che il nostro trasferì armi e bagagli in Francia per poi registrarlo. È accompagnato dalla sezione ritmica di Elvis, Ron Tutt e Jerry Scheff, e ingaggia Jean-Claude Petit, già con Edith Piaf, cui affida gli arrangiamenti d’archi e si autoproduce per la prima volta. Il risultato è quella meraviglia di ‘Le Chat Bleu’, a partire dalla copertina stessa. È il lavoro in cui convivono rock’n’roll e le atmosfere oscure e malate della Parigi del tempo. Si parte con ‘This Must Be The Night’, grande feeling, voce aspra, coretti alle spalle fino all’entrata del sax rauco e siamo già ai suoi piedi. Si prosegue con ‘Savoir Faire’, con il piano trillante, le chitarre grintose e Willy che c’insegna cosa significhi cantare. ‘That World Outside’ una ballata romantica alla Doc Pomus e Mort Shuman .‘Slow Drain’, siamo ai Caraibi per un brano di grande pathos con piano e percussioni sugli scudi fino all’ingresso della voce. Non ce n’è per nessuno, ‘Lipstick Traces’ è un pezzo grintoso ed aggressivo che giustifica il suo inserimento nella scena punk newyorkese ma che, allo stesso tempo, lo allontana per la classe che lo contraddistingue. ‘Mazurka’ è un pezzo mexicano con la fisarmonica in evidenza e in largo anticipo sui tempi. Il brano finale ‘Heaven Stood Still’, notturno e misterioso, con Willy che recita accompagnato da un piano, poi la voce si dispiega e la ballata maledetta prende corpo e ci trasporta a Parigi, in quel luogo che lo ha visto amato di più.
A parte me.

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