M. WARD- “Migration Stories”Questa uscita era programmata per il 3 di aprile, ma è stata cancellata a data da destinarsi. M. Ward esce a due anni dall’autoprodotto “What A Wonderful Industry” e a quattro da “More Rain” pubblicato da Merge. Artista che, nel corso della sua carriera, ha toccato punte qualitative tali da porlo come uno dei migliori scrittori nell’ambito della canzone folk americana, pur facendo in modo di contaminarsi con il R’n’R e il pop.
Per il suo decimo album, lo scrittore, produttore e musicista è stato nel Quebec, Canada, per lavorare con Tim Kingsbury e Richard Reed Parry, membri degli Arcade Fire, il produttore/fonico Craig Silvey (Arcade Fire, Arctic Monkeys, Florence and the Machine) e Teddy Impakt. Assieme, negli studi di Montreal degli Arcade Fire, il folksinger amico di Howe Gelb e il team di musicisti/produttori hanno registrato un canzoniere ispirato alle storie dei migranti, storie catturate dai giornali, dai notiziari televisivi, oltre che dai racconti personali di amici e dalla stessa famiglia Ward. Ad anticiparlo, il singolo guida “Migration Of Souls”, la storia di un ricongiungimento che supera gli ostacoli spazio-temporali, un classico arioso, intimo, brano folk del nostro eseguito al chiaro di luna e imbastito su un riff di chitarra acustica registrata in presa diretta (e ben in evidenza nel mix) avvolto da un seducente gioco di voci e cori.
Nel corso di più di 20 anni, Ward ha sviluppato e raffinato uno stile le cui radici sono piantate da qualche parte tra l’Elvis post esercito e i Beatles che stanno per raggiungere il successo, ma i cui rami e fiori sono molto parte della moderna Americana.
In questo lavoro è ispirato unicamente dal folk, non ci sono ibridazioni con altri generi musicali. In sede di produzione ha creato una raccolta il cui suono fosse scarno, oscuro ipnotico in modo da rivestire canzoni, di una purezza paradisiaca, del solo necessario.
Ci sono punti di riferimento da tutta la musica americana: John Fahey (“Stevens’ Snow Man”), una resa dal tocco gentile di uno standard degli anni ’40 “Along the Santa Fe trail” e il suono perpetuo di chitarre twangy e voci riverberate. Rimane costante l’approccio a storie crude, di sogno, ascoltate in giro oppure appartenenti alla sua propria famiglia che si trasformano in canzoni ruvide e poco socievoli (“Indipendent man”), avvolte da infinita dolcezza (“Chamber music”) oppure che ci commuovono fino alle lacrime (“Heaven’s Nail and Hammer”). Risulta ancora più attraente quando si spinge un po’ fuori dallo steccato che si è imposto per questo disco, come nel caso di “Unreal city” in cui l’utilizzo di synth lo porta, per struttura melodica e disposizione, verso l’alt-rock, oppure come nella ballata “Real silence” il cui battito sintetico crea un cortocircuito da pelle d’oca per un brano segnato da una limpidezza e innocenza d’altri tempi.
“Migration stories” è perfetto per un ascolto serale, appena dopo uno splendido tramonto, magari assaporando un rosso da meditazione!!!


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