Non sono un tipo social, ho un account Facebook solo da amministratore della mia pagina che utilizzo unicamente per postare l’uscita di dischi particolarmente interessanti sia per contenuto che per aspetto grafico.
Lo scorso 30 giugno mentre controllavo il mio post l’occhio è caduto su una data e su un nome: 29/06/1979, Lowell George. Si tratta del giorno della scomparsa del leader degli immensi Little Feat, forse la mia band favorita di tutti i tempi. Con profonda emozione ancora ricordo il maggio del 1995 quando, al Festival di New Orleans, potei ammirarli sul palco e la frecciata al cuore che mi assestò Paul Barrere quando puntò il dito verso il cielo e disse “This is for you” ed attaccò una devastante ed interminabile “Dixie Chicken”. Non riuscii a trattenere le lacrime.
Lowell è uno dei più bravi ed interessanti slide guitarists mai apparsi sulla scena musicale, di pari livello a Duane Allman e Ry Cooder che sono considerati mostri sacri.
La carriera del nostro è stata importante anche al di fuori del suo gruppo di appartenenza. Suonò, infatti, con Frank Zappa spargendo piccole meraviglie in “Weasels ripped my flesh” e”Hot rats”. Venne citato dagli Stones in “Let it bleed” come una loro grande influenza ed è stato considerato e rispettato dal giro dei musicisti losangelini.
Con il proprio gruppo esplorò le possibilità di far convivere country, blues con le ritmiche della Big Easy e tutto durò finchè le redini del suono erano nelle sue mani. Quando si fece democratico e spartì l’onere delle composizioni con gli altri la qualità calò vistosamente fino al punto di decidere di intraprendere una carriera solista che, purtroppo, conta di un solo album, “Thanks i’ll eat it here”, perché, dopo la pubblicazione, morì di overdose.
Era un personaggio bizzarro quasi come le copertine che Neon Park approntava per i lavori dei Little Feat.
Le canzoni erano popolate di eroi improbabili e camionisti e rappresentavano l’altra faccia di Los Angeles, non quella che descrivevano gli Eagles cantando del lusso dei canyon, ma piuttosto delle zone malfamate.
Il disco in questione vede Lowell comporre solo tre brani ed attingere per le restanti tracce da compositori di vaglia quali Toussaint, Van Dyke Parks, Jimmy Webb e una giovane Rickie Lee Jones, cioè alcune delle più grandi firme del songwriting stelle e strisce.
Il suono è sostenuto dalle incomparabili ritmiche di Jeff Porcaro e Jim Keltner (batterie) e Chuck Rainey (basso) su cui si innesta il piano di Nicky Hopkins e le tastiere di David Foster e di Bill Payne nonché la celebrata slide di George.
Le armonie vocali sono pitturate da Bonnie Raitt, J.D. Souther e Maxine Willard Waters.
È un disco denso di emozioni, calore e colori su cui domina la voce di Lowell mai così espressiva e nera.
Si inizia con un classico di Toussaint “What do you want the girl to do?”, forse l’apoteosi per il New Orleans sound.
Si prosegue con “Honest man” canzone nervosa con i fiati che non danno tregua. “Two trains” è ripresa da “Dixie chicken” e da un significato al termine suono meticcio.
“I can’t stand the rain” di Ann Peebles è un botta e risposta tra i ritmi sincopati e la slide.
“Cheek to cheek” ci fa oltrepassare il confine con il Messico e si lega alla “Linda Paloma“ di Jackson Browne e alla “Carmelita” di Warren Zevon.
“Easy money”, dell’ancora poco nota Rickie Lee Jones, rimane sui sentieri sicuri del rock-blues.
“20 millions things” e “Find a river” sono momenti malinconici in cui prevalgono i ricordi e le commozioni di chi crede che non riuscirà a raggiungere i propri obiettivi. Come lui che venne stroncato da un attacco cardiaco durante il tour promozionale del disco.
Nonostante non lo abbia potuto ribadire, queste canzoni gli consegnano un posto in prima fila nella storia dei singer songwriter.


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