Kristine Hersh è una sopravvissuta degli anni novanta, ogni tanto appare con un disco nuovo delle Throwing Muses, raramente con il suo gruppo 50 Foot Wave più spesso come solista in veste acustica oppure a metà tra il proprio individualismo esasperato e l’elettricità di una band. Mi ricorda quelle figure di cui si parla tra le genti che abitano vicine ad un lago, viste come spettri venuti a spaventare le popolazioni.
In uscita per Fire Records (etichetta per la quale la songwriter ha firmato quest’anno un contratto), “Possible Dust Clouds” è l’album di Kristin Hersh che segue “Wyatt at the Coyote Palace”, un doppio CD (abbinato a un libro) pubblicato ad ottobre 2016. L’undicesimo di una carriera solista iniziata nel 1994 con Hips And Makers.
Ancora una volta siamo di fronte ad un disco bello e sofferto, forse più del solito, che terrà lontane le persone dall’ascolto, sia quelli che si professano seguaci del mercato indie, sia quelli che ascoltano distrattamente per cui, alla fine l’album è rivolto ai fans di vecchia data.
L’atmosfera è oppressiva e greve, plumbea è il termine più appropriato, una situazione che mi ricorda certi dischi di “grunge” che avanzano brano dopo brano con un suono di basso, batteria e distorsioni senza soluzione di continuità.
I due pezzi posti in apertura “Lax” e “No shade in shadow” sono paradigmatici di quanto esposto sopra, mentre “Half way home”, “Foxpoint” e “Lady Godiva”li possiamo inquadrare in quel suono di derivazione Throwing Muses cioè un blend indie-folk noise.
Forse è più semplice capire ciò che l’opera rappresenta dalle sue stesse parole: «A volte la cosa più sovversiva che posso fare musicalmente è aderire alla struttura standard delle canzoni, a volte gli accordi più inquietanti sono quelli che abbiamo sentito per primi, intrecciati in forme diverse, e a volte una storia viene vissuta migliaia di volte prima di poterla guidare come sulle montagne russe», ha dichiarato la cantautrice USA nel presentare la sua nuova fatica. «Solitamente – ha aggiunto – suono tutti gli strumenti nei miei dischi solisti, il che è essenzialmente il suono di chi non ha amici, ma i sociopatici non possono realizzare il loro potenziale senza che ci siano gli altri a risolvere le loro lagnanze, e questo disco è un fottuto disco sociopatico. Così ho invitato i miei amici al party che volevo ascoltare. Non un disco live ma un disco “alive”».
Per me un gran disco!!!


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