cover album KHRUANGBIN- “Mordechai”Il trio psych-rock texano Khruangbin pubblica il suo terzo album ufficiale da studio, a un anno di distanza dal clamoroso successo di “Hasta El Cielo” e a due da “Con Todo El Mundo”. “Mordechai” ci mostra le nuove coordinate geografiche nel viaggio intorno al mondo di Laura Leezy, Mark Speer e Donald DJ Johnson, con una determinante incursione nell’universo dei brani cantati, che donano maggior spessore ed appeal pop alla musica del gruppo, una delle espressioni più brillanti ed originali della cultura indie moderna.

Il terzetto di Houston è stato, per il sottoscritto, una delle più interessanti rivelazioni di questi ultimi anni. Nei due dischi precedenti hanno proposto una miscela difficilmente classificabile, ma godibilissima, di psichedelia, funk, dub, r&b, desert rock, atmosfere thai e mille altri generi, riuscendo ad affascinare pubblici molto diversi tra loro. La formula di soli pezzi strumentali però rischiava di essere un limite, cosi a inizio anno abbiamo salutato con entusiasmo l’EP “Texas Sun”, realizzato insieme all’ottimo cantante soul Leon Bridges, che aveva il solo difetto di durare troppo poco. Ora la loro caratteristica propensione per le jam d’atmosfera e il melting pot di stili musicali viene conglobato all’interno di una forma canzone vera e propria: solo una traccia (“Father Bird, Mother Bird”) è strumentale, tutto il resto è arricchito da cori e dalla voce dell’affascinante bassista Laura Lee Ochoa.

L’album si apre con un brano intitolato “First Class”: l’elegante soul psichedelico è il giusto approccio per un disco dalle molteplici vibrazioni, un vero e proprio viaggio musicale in prima classe. Il raffinato reggae-dub in slow-motion di “One To Remember” e l’eccitante disco-boogie di “Time (You And I)” sono solo due degli estremi che i Khruangbin sfiorano con eleganza e classe. L’etno-jazz di Mulatu Astatke è invece alla base del delizioso blend di “Connaissais De Face”, che non disdegna influssi surf-rock ed esotismi alla Gainsbourg; questi ultimi elementi sono assimilati e inglobati nel fluido e armonico incedere chitarristico dell’introversa jazz-fusion di “Father Bird, Mother Bird”. E che dire dell’apparente semplicità di “Pelota” che oltre alle evidenti trame latin-rock e ai tempi sensuali della cumbia, mette in mostra tracce di rock iraniano e flamenco.

Ma più che le canzoni, quello che sorprende è l’attitudine e la chimica che c’è tra i tre componenti: il batterista (e tastierista) Daniel Dj Johnston che supporta le sinuose linee di basso di Laura Lee e l’ottimo chitarrista Mark Speer che con gran tocco riesce a mettere insieme tutti questi stili, senza particolari virtuosismi ma con grande raffinatezza e sensibilità di esecuzione. Anche i testi si dimostrano interessanti, ricchi di poesia, semplici ma efficaci, che parlano di memoria, scoperta ed accettazione.

Non lasciatevelo sfuggire, un modo splendido per trascorrere l’estate attraverso una musica un po’ fuori dall’ordinario!!!


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