Affermo, senza alcun dubbio, che John Mellencamp è il migliore singer-songwriter sulla scena classic-americana.
Sicuramente è il mio preferito da tanti anni a questa parte. È uno dei pochi musicisti per cui non vale la regola che si da il meglio di sé in gioventù. Un metodo molto semplice ed efficace per avvalorare la mia tesi è quello di ascoltare con attenzione la raccolta “The best that i can do”, che prende in considerazione un periodo di dieci anni della carriera del “Little Bastard” (1978-1988). All’inizio si avvertiva una profonda incertezza sulla strada da intraprendere, non solo musicalmente, ma anche in ottica di nome da scegliere con cui presentarsi al pubblico da Johnny Cougar a John Cougar, da John Cougar Mellencamp fino alla scelta definitiva di usare, semplicemente, il proprio nome e cognome.
I primi brani mostrano insicurezza, i suoni dipendono un po’ troppo dai produttori scelti, il nostro rivela una certa immaturità.
Anche i pezzi tratti dall’osannato “American fool”, riascoltati oggi, palesano i limiti negli arrangiamenti, un tantino (eufemismo) radiofonici nel tentativo di scalare le classifiche, ricchi di inutili orpelli come era costume in quegli anni ottanta mainstream.
Fu solo da “Uh-huh”, del 1983, che, finalmente, John trovò quello che da tempo stava cercando, un mix di elettricità alla Stones e James Brown, ma una scrittura di spessore ed ispirata al grande Bob Dylan.
Da quel momento fino alla conclusione degli eighties fu un crescendo di qualità e popolarità che ben si può dedurre dai vari bootleg che lo immortalano dal vivo in quel particolare momento di creatività senza limiti.
Con il trascorrere del tempo ce lo siamo trovato nella seconda metà degli anni ’00 come un novello folksinger, molto più acustico e meno votato all’aggressività (visto i due infarti subiti).
Sono gli anni degli album prodotti da T-Bone Burnett in cui Mellencamp si dimostra eccellente penna di brani non sempre perfetti, ma affascinanti proprio per la non voluta messa a fuoco.
La capacità di fondere elettrico ed acustico, l’Hillbilly del violino e della fisarmonica ce lo consegnano come l’interprete più godibile e maturo del lotto dei vari nuovi Dylan.
È da poco uscito un doppio cd+dvd che ha modo di deliziarci grazie alla splendida esibizione tenuta a Chicago. Un disco in cui sono presenti tutte le espressioni musicali di cui John è capace.
Dal folk declinato da songwriter come in “Lawless times” e “Troubled man”. C’è la parte intimista e solitaria con voce, acustica e piano fortemente evocativa ed emozionante di “The longest day”, la waitsiana “The full catastrophe” con una voce rauca e tremendamente espressiva.
Non manca il country nella “My soul’s got wing” e neppure uno strano ibrido tra classica e Appalachi dal titolo “Overture”.
Deposta l’acustica ed imbracciata l’elettrica ci fa vedere che è ancora in grado di sprigionare potenza come ai tempi d’oro grazie a tracce quali “Authority song”, “Pop singer” e “Check it out” che testimoniano quanto sia legato a James Brown e al soul.
Il tutto termina con una scarica adrenalinica di rock nelle immortali “Rain on the scarecrow”, “Pink houses” e “Cherry bomb”.
Non lasciatevi fuorviare da chi vi dirà che è antipatico, scostante, scontroso, ormai senza grinta sul palco perché di musicisti di tal fatta si sono perse le tracce da tempo!!!


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