Quando mi capita di recensire dischi per la rubrica “Ripeschiamoli” è il caso che mi guida. In questa occasione mi è passato per le mani il box di Graham Parker “These dreams will never sleep” uscito un paio di anni fa e già fuori catalogo.
Quanti ricordi, momenti di gioia indescrivibile trascorsi ascoltando i suoi album, quelli che vanno dall’esordio fino a “The up escalator”.
Siamo al cospetto di uno dei più grandi “Beautiful losers” della nostra musica. Un personaggio che ha, sicuramente, più dato che ricevuto.
Faceva parte, per comodità di critica, della triade di autori che infiammò l’Inghilterra nella seconda metà degli anni ’70 assieme ad Elvis Costello e Joe Jackson. Per la verità il nostro arrivò prima degli altri due, ma gli toccò un successo infinitamente minore.
Si autodefinì “The best kept secret in the west”, ha sempre ricevuto scarse attenzioni dal pubblico, ma ne ha creata tanta nella stampa specializzata e nei critici.
La sua musica è talvolta, soprattutto nelle liriche, troppo intellettuale, votata ad una critica della società e di coloro che tirano le redini del mondo. Ha combattuto aspramente contro le case discografiche come dimostra il brano “Mercury poisoning” in cui si scaglia contro l’omonima etichetta.
Era accompagnato da una band, i Rumour, a parer mio di gran lunga superiori alla E-Street e composta da musicisti che avevano fatto parte di gruppi che vissero la stagione d’oro del Pub-rock quali i Brinsley Schwarz e i Ducks Deluxe.
In poche parole aveva tutto per sfondare, ma il destino non era dalla sua parte. Avrei potuto raccontarvi di uno qualsiasi dei suoi primi album, ma avevo già chiaro in testa che la scelta sarebbe caduta su “Howlin’wind”, il suo esordio e quello con cui lo conobbi e che, a distanza di quasi quarant’anni, mi sembra ancora un signor disco.
La copertina ci mostra un musicista con un fisico asciutto, aria da teppista nevrotico, sembra un po’ lo Springsteen della perfida Albione.
Il debutto risale al 1976 e il nostro ci propone un programma a base di pub-rock viscerale e molto scuro, plasmato sulla musica dei suoi idoli (Otis Redding, Wilson Pickett e Arthur Conley).
È un momento cruciale per il rinnovamento della scena musicale britannica e il lavoro suscita un grande clamore nella stampa. Merito di un leader dalla voce aggressiva, ma anche di una formazione alle spalle rodata e di gran classe. Dal vivo si aggiunge spesso una sezione fiati che dona al sound ulteriori sfumature e colori.
Il cantautore infila una serie di brani da antologia. “White honey” è un R’n’B di stampo morrisoniano, “Gipsy blood” una ballata da pelle d’oca che non fa prigionieri.
Se Carl Perkins ci cantava “Blue suede shoes”, Graham non è da meno con “Soul shoes”. La risposta alla composizione di Chuck Berry “School day” è il rockabilly anfetaminico di “Back to schooldays”.
I miei pezzi favoriti sono “Howlin’ wind” un blend tra il Van Morrison più mistico e la Band e la conclusiva “Don’t ask me questions” un reggae rock come non se ne erano mai sentiti, passionale veloce e declinato alla maniera del punk.
Provateci a rimanere indifferenti, può succedere solamente nel caso foste degli alieni.


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