La musica dei Goat esprime una miscellanea tra folk, psichedelia, groove funk, improvvisazione di scuola jazzistica e svariate impronte etniche.
I membri della band hanno il piacere di mantenere un certo alone di mistero sui loro nomi di nascita usando pseudonomi, per cui poco si conosce circa le loro origini. L’unica notizia certa su di loro è che provengono dalla nordica Svezia.
Giunge sui nostri tavoli l’esordio del misterioso chitarrista dei nostri, Goatman, con un lavoro che non si discosta di molto da quelli del gruppo madre. L’autore ha suonato tutti gli strumenti da solo, ricevendo un piccolo aiuto dalla percussionista Hanna Ostergren, dai fiatisti Johan Asplund e David Bystrom e da tre cantanti: il senegalese Seydi Mandoza, la svedese Amanda Werne, meglio conosciuta in patria con il nome d’arte Slowgold e e Amerykhan.
Il disco è composto da sei tracce che assumono una forma di jam continua. La scaletta è inaugurata dall’incontenibile groove scandito da “Jaam Ak Salam”, una coloratissima festa afrobeat che dà la sensazione di essere stata catturata live. Si prosegue con la successiva “Hum Bebass Nahin” che si avvicina al desert-blues dei Tinariwen, con tanto di solo in modalità wah-wah. I cori femminili sono protagonisti in “Carry The Load”, mentre la tribalità di “Aduna” da forma ad un contagioso jazz etiope, soprattutto quello degli anni settanta.
Il risultato finale è un contagioso lavoro di psichedelia mondiale, che pur rimanendo al di sotto degli standard qualitativi del gruppo madre, riesce ad eccitarci per l’ennesimo coraggioso esperimento sostenuto dalla Rocket Recordings, etichetta che non si pone limiti nel presentarci opere visionarie al di fuori delle regole.


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