Atipico soul-man, tra l’altro uno dei miei preferiti tra quelli degli anni settanta, quelli veri, non quelli che si contaminavano con la disco.
La sua voce è una delle più ricche di inflessioni della storia moderna della musica popolare nera, intensa e capace di creare tensione come pochi altri. È evidente il suo passato nel rigoroso mondo gospel, ebbe anche una formazione classica alla Howard University di Washington. Fu scoperto da un altro mio idolo, Curtis Mayfield, che lo lanciò attraverso la sua etichetta, la Curtom. Fu solo quando firmò per la Atlantic che iniziò ad imporre la propria creatività individuale.
L’album in questione è stato registrato tra settembre 1969 ed aprile 1970 da Murray Allen e Roger S. Anfinsen e prodotto da lui stesso e Ric Powell.
Molti artisti hanno iniziato la loro carriera nei cori gospel delle chiese delle comunità nere e quella di Donny Hathaway è sicuramente una delle più folli. La rivista Rolling Stone lo ha nominato come il quarantanovesimo più grande cantante di tutti i tempi, anche se può sembrare una definizione un po’ astratta. Ma proprio le primissime battute del brano che apre l’album “Everything Is Everything”, “Voices Inside”, promettono un programma in cui le voci strumentali e umane sono alla pari. Basta ascoltare il suono straordinariamente saturo ed il chiaro fraseggio degli strumenti a fiato che vanno da tonalità discrete fino a quelle più forti.
Questo album è un percorso sonoro che offre di tutto: il blues armonicamente fresco di “I Believe To My Soul”, le appassionate virate verso l’alto di “Misty” e la confusione percussiva, arida ed allegra di “Sugar Lee”. Ogni singolo arrangiamento gode pienamente dell’eccellenza dei musicisti ed ogni pezzo è per questo unico. “Trying ‘Times” ha la stessa morbidezza melodiosa del brano gospel “Thank You Master For My Soul” che si avventura nei regni delle armonie del free jazz per arrivare alla gloria di Dio. E poi c’è il brano di chiusura, “A Dream”, in cui la voce di Hathaway è fluida e capace di librarsi fino ai registri più alti: un pezzo il cui titolo è la descrizione più appropriata per l’intero album.


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